lunedì 5 settembre 2011

Che fare? Per una migliore integrazione nazionale e internazionale della sociologia italiana



Bella idea quella di un blog dedicato alle proposte per affrontare le crisi della sociologia italiana. Molte questioni e temi s’intrecciano, ed effettivamente difficilmente possono essere affrontati separatamente. Dal nostro punto di vista il nodo centrale è la scarsa presenza della produzione scientifica italiana nel dibattito internazionale. Non è l'unico punto ovviamente, ma su questo abbiamo deciso di concentrarci.


Sebbene con alcune significative eccezioni (importantissime, non tanto per orgoglio nazionale, ma semmai per imparare da esse), possiamo facilmente affermare che la maggior parte delle ricerche italiane non sono citate e non entrano nel dibattito internazionale. Il problema ovviamente non è solo italiano, ma riguarda la maggior parte dei Paesi non anglofoni con tradizioni nazionali forti. Sappiamo bene che la sociologia è disciplina che non parla solo alla comunità scientifica, ha un suo pubblico attento che le pone una domanda locale forte, indirizzando fondi e possibilità di ricerca empirica. Tuttavia, l'assenza di confronto sistematico fra la maggioranza dei sociologi italiani e la comunità scientifica internazionale è arrivata a un punto così estremo da meritare una riflessione collettiva.

Da questo punto di vista, avvertiamo bene la difficoltà e la rabbia di molti dottorandi e studiosi precari (assegnisti, collaboratori, ecc.) che da un lato vengono incoraggiati a pubblicare su riviste internazionali – ovviamente con peer-review anonima – e dall'altro hanno come principali riferimenti (maestri, consiglieri, o semplicemente capi) persone che in alcuni casi non hanno mai fatto una tesi di dottorato (ne hanno dirette tante, ma non ne hanno avuto esperienza personale) e talvolta non hanno mai pubblicato su una rivista scientifica che non controllano direttamente, senza protezioni e accordi di scambio, solo per il merito dei loro risultati di ricerca e l'avanzamento alla conoscenza cumulativa che producono.
Certamente la protesta dei "ricercatori precari" è legata alle condizioni di retribuzione, alla lunga durata del precariato, alle possibilità di sbocco professionale, e alle iniquità del reclutamento. Ma ha anche una consistente componente di sfiducia e delusione nei confronti delle autorità accademiche nostrane sul piano del merito scientifico. Il malessere dei ricercatori precari in proposito è interno alla transizione che stiamo vivendo, in cui forze contraddittorie e confuse si affrontano, spingendo alternativamente verso (1) l'internazionalizzazione e il confronto basato sulla qualità del proprio lavoro o (2) una focalizzazione più tradizionale di carattere nazionale sebbene basata sulla qualità del proprio lavoro, ma anche verso (3) un dibattito tutto nazionale sulla base di appartenenze e fedeltà, e in casi più rari (ma comunque inquietanti e che hanno una loro storia di lunga durata da non trascurare) verso (4) l'internazionalizzazione dentro circuiti chiusi in cui prevale ex ante una logica dell’appartenenza.

È un'analisi forse eccessivamente parsimoniosa e riduttiva, che punta tutto sulla produzione accademica, distinguendo solo fra livelli nazionale e internazionale, tra selezione sulla base del merito scientifico o dell'affiliazione a gruppi di interesse. Ci aiuta, tuttavia, a posizionare il nostro stupore a fronte della risposta di Morcellini all'importante messaggio di Barbera, Pisati e Santoro. Le componenti strutturano incentivi che sostengono e riproducono una logica dell'appartenenza, a discapito di una logica del merito. Questo per noi è il punto.

Non crediamo che il modo di funzionare delle tre componenti dell'AIS abbia alcun equivalente in nessun altro Paese. Quante volte lo abbiamo raccontato con dovizia a colleghi all'estero, ottenendo sempre la stessa reazione: colleghi sbigottiti, increduli, che si chiedevano se stessimo esagerando in una sorta di fiction sociologica sul peso degli interessi organizzati nella comunità accademica.
In tanti nel forum della Treccani sono intervenuti per segnalare come le tre componenti non siano l'unico male della sociologia italiana, e che eccessi di localismo e mancanza di meritocrazia sono mali che affliggono le selezioni concorsuali anche in Paesi che non hanno componenti a spartirsi i concorsi. Pur tuttavia, ci sembra importante affermare che il gioco delle componenti non può che rinforzare e istituzionalizzare le pressioni e gli incentivi verso una logica della fedeltà e dell’appartenenza, aggiungendo – secondo un modello propriamente feudale – un’ulteriore esigenza di lealtà a quella che esiste già a livello locale. Anche pubblicare all'estero non è sempre un antidoto a questa logica, perché può prendere dei canali interni a rapporti di scambio, esclusivi, cui si accede per relazioni di dipendenza.

Le componenti non saranno l'unico male della sociologia italiana. Ma non la aiutano, anzi creano incentivi collettivi che spingono progressivamente verso la mediocrità e l'irrilevanza. Il grado di frammentazione e le barriere al confronto scientifico sono tali da non avere equivalente in alcun altro Paese in cui abbiamo lavorato. Certo, le differenze epistemologiche e l'iperspecializzazione dei sottocampi disciplinari producono ovunque problemi seri per l’unità e l’articolazione della disciplina, e nuocciono alla sua capacità di cogliere fenomeni sociali di ampia portata. In Italia, tuttavia, non è questo il problema principale: è la suddivisione in componenti che prestruttura e frammenta il campo sociologico per ragioni autoreferenziali, con un impatto notevole sulla possibilità stessa del confronto scientifico e dunque sulla qualità della produzione.

A fronte di ciò, come pensare soluzioni? Da cosa imparare? Quali piste di lavoro?

a) Un primo punto crediamo debba essere comunque la critica aperta delle componenti. Non dimentichiamo che per anni non se ne è parlato… Le componenti hanno acquisito e stabilizzato il proprio potere, e solo raramente se ne parlava. Non c'era ironia, né tentativi di dissacrarle. Non se ne spiegava il funzionamento ai dottorandi. Se ne parlava solo con rispetto. Oggi, chi pretendesse difenderne la perennità, dovrebbe iniziare spiegando alla comunità scientifica quali sono le loro virtù euristiche, a cosa servono, e perché non se ne potrebbe fare a meno…

b) Un secondo punto potrebbe essere tentare di prendere sul serio le indicazioni prodotte dai ricercatori precari. Non sono sempre coerenti, ma non sono nemmeno così superficiali da poter essere liquidate come velleitarie, tutt'altro. Una seconda indicazione di metodo è dunque di ascoltarle e soppesarle con attenzione, in relazione alla riforma Gelmini, e non solo. Non spetta a noi riassumerle qui, ci interessa l’indicazione di metodo.

c) Un terzo punto, assai semplice e senza costi, potrebbe essere introdurre una norma che vieti l’assunzione dei dottori di ricerca come ricercatori nello stesso ateneo in cui si sono addottorati. Ovviamente questa norma troverebbe fondamento solido solo se introdotta a livello nazionale, valida per ogni disciplina. Tuttavia, aspettando simili provvedimenti, l’AIS potrebbe promuoverla nei settori scientifico-disciplinari della sociologia. Anche se questo tipo di regola non impedisce le raccomandazioni incrociate, é tuttavia propizia a generare scambi di giovani ricercatori di "valore" simile (se un dipartimento “manda” a un altro dipartimento il suo giovane più bravo, si aspetta qualcuno altrettanto preparato in cambio: sebbene dentro una logica di scambio, è già un passo avanti verso dinamiche un poco più meritocratiche). Ovviamente é una misura semplicissima, che non costa un euro agli atenei e che l'AIS potrebbe imporre per propria iniziativa ai suoi membri... (bisogna pure che, il peso dell'associazione serva a qualcosa, no?). I principali problemi, semmai, sono l'età relativamente avanzata a cui sono assunti i ricercatori e il livello del primo stipendio... che sono ostacoli seri alla mobilità geografica, anche da una città italiana all'altra.

d) Un quarto punto potrebbe essere l’introduzione, nel modo più istituzionalizzato possibile (sul sito dell'AIS, ad esempio) di uno strumento di trasparenza e visibilità sugli esiti dei concorsi. Potrebbe essere organizzato sulla falsa riga delle wiki-auditions, che in Francia permettono di seguire, tappa per tappa, tutti i concorsi dalla pubblicazione del bando e della lista dei commissari all’esito finale. Occorre introdurre con forza dei meccanismi reputazionali capaci di mettere in luce la catena di responsabilità nelle selezioni basate su una logica dell'appartenenza.

e) Un quinto punto, assai coraggioso, potrebbe essere rivedere la disciplina dei dottorati: ora come ora uno dei punti di debolezza maggiore dei dottorati in sociologia consiste nella figura dei tutor. Il dottorando diventa “proprietà” del tutor. Non ci sono (o ci sono poche) forme di responsabilità collegiale sui dottorandi, mentre sono assai più diffuse nella maggioranza delle altre università europee (e ancora di più negli Stati Uniti). In Francia, per esempio, conta molto il laboratorio a cui si è affiliati durante il dottorato e il sostegno ai dottorandi ha un carattere condiviso molto forte; senza contare che il tutor stesso può esercitare tale funzione solo dopo anni di insegnamento e ricerca come titolare e dopo esserne stato formalmente ritenuto capace al termine di una valutazione selettiva a cui partecipano numerosi colleghi esterni al suo ateneo (cioè, generalmente, dopo l’ottenimento di una habilitation à diriger des recherches). Sappiamo che l'importazione di formule dall'esterno richiede sempre correttivi, ovviamente. Ma è indispensabile che il tutor insegni al suo allievo i metodi di lavoro per passare le “barriere” della peer-review, lo familiarizzi con il mondo delle riviste scientifiche (non solo come lettore, ma anche come produttore), insomma che disponga dell’esperienza, del tempo e delle competenze necessarie per accompagnare un-a giovane – probabile futuro/a collega – verso la professionalizzazione accademica. Se vogliamo spingere nella direzione di una ricerca più incisiva nella comunità internazionale, più robusta e affidabile per i risultati descrittivi ed esplicativi ottenuti, occorre affrontare fin da subito anche i nodi della formazione scientifica e del dottorato di ricerca, e orientarli chiaramente su altri standard.

Bruno Cousin (Université de Lille 1)
Tommaso Vitale (Sciences Po, Parigi)

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