domenica 31 luglio 2011

Meritocrazia ed etica della responsabilità


É mia convinzione che “la meritocrazia non esiste”, come notoriamente Goldthorpe ci ha dimostrato con dati empirici, richiamando l’allarme lanciato dallo stesso inventore del termine, Young, attraverso la sua analisi fantascientifica di una società meritocratica. Ma sono anche convinta (confortata dalla lettura di Goldthorpe, Schizzerotto, Abravanel, Salvati, Urbinati, De Monticelli) che “la meritocrazia può esistere se si accompagna all’etica della responsabilità”. Intendo quest’ultima come una “responsabilità” relativa alla “dimensione sociale” connessa all’espressione del “merito”. Non dico nulla di nuovo se ricordo che i differenziali sociali di capitale economico, culturale e relazionale rientrano nella valutazione di capacità e impegno, pur in un quadro di seria comparazione tra coloro che si presentano a concorrere per un posto di lavoro o per la carriera. Da qui parte il mio contributo al nutrito dibattito che è sul sito della Treccani, con diramazioni su riviste (come Rassegna Italiana di Sociologia o Accenti) e quotidiani (come il Corriere della Sera), e a quello che comincia a svilupparsi sul blog perlasociologia, un nome che sollecita insieme critica e costruttività.

Fino ad ora, nell’intero dibattito, sono stati toccati punti essenziali e sono state avanzate proposte interessanti per l’obiettivo di rendere forte l’identità disciplinare e trasparenti le procedure di selezione delle persone e di controllo delle risorse nell’università. In molte proposte è invocata la meritocrazia come correttivo del sistema di cooptazioni, che è sempre esistito come meccanismo di reclutamento, e che si è perpetuato in modo più stridente, specie in questi ultimissimi anni, quando le logiche governative liberiste hanno ridotto i fondi. La crisi di risorse e la conseguente maggiore selettività è stata, a mio avviso, l’occasione della forte denuncia delle cooptazioni negli “invisible college”. Si sono denunciate le aberrazioni del sistema del reclutamento e delle carriere, quelle evidenti perché scaturite, come è stato notato dalla Saraceno, solo quando si è aperta una falla nella procedura legale. Certo la denuncia è stata meno forte sui meccanismi di cooptazione tipici degli “old boy’s network”, che hanno escluso e escludono le donne. Ma accantono per il momento la questione del genere, per concentrarmi sulla definizione e applicazione di criteri per la selezione delle risorse, persone e mezzi finanziari.

La denuncia che è stata indirizzata, da Santoro, Barbera, Pisati e altri, alla fisionomia assunta dalle “correnti” dell’Associazione dei sociologi accademici, ha, a mio avviso, colto il nodo vitale di un sistema in cui i meccanismi di cooptazione sono gestiti dai gruppi dominanti in ciascuna corrente, sempre più ristretti fino a ridursi spesso ad un solo leader.  Un gruppo, o un leader, il cui dominio si è basato sulla capacità di definizione dei criteri selettivi, di gestione e di controllo della distribuzione delle risorse. Un gruppo, o un leader dominante, con il quale negoziare persone e posti, in una catena di scambi che si snoda, e si è snodata, nel tempo e nello spazio, all’interno delle stesse correnti o tra correnti diverse in una logica spartitoria. Comportamenti che nel dibattito sono stati denunciati. Ma a chi imputarli? Al sistema correntizio e ai suoi meccanismi di cooptazione o a persone singole?

Se li imputo al sistema delle correnti, alla loro fisionomia, la denuncia non può che essere indirizzata ai gruppi dominanti o ai leader nelle correnti. Sono quelli che definiscono i criteri selettivi, o la loro applicazione, e, come dice Bourdieu, il loro dominio è misurato dalla capacità di far accettare le proprie definizioni ai non dominanti. Se li imputo alle persone, la denuncia si indirizza a coloro che negoziano con i gruppi dominanti o con il leader, anzi, a coloro che creano sulla propria capacità di negoziazione il potere di scambiare risorse, umane e materiali.

Prendo i casi vistosi dei recenti (e meno recenti) ingressi nella fascia degli Ordinari, quella che è oggetto privilegiato delle negoziazioni e degli scambi. Sono casi conosciuti dai più e rientrano nella denuncia di mancata meritocrazia nelle valutazioni comparative, quando si è messo in luce lo scambio tra l’assegnazione del posto al candidato locale, titolare dello jus loci, e l’assegnazione dell’idoneità ad un candidato esterno. Ma non si è detto che, spesso, l’esito delle valutazioni comparative, promosse in università meridionali, non è stato solo determinato dalla spartizione tra le correnti, ma anche da una negoziazione che ha visto a confronto gruppi operanti nelle università del Sud Italia con quelli del Nord Italia, e ancora queste negoziazioni sono avvenute all’interno della stessa corrente dell’AIS e hanno promosso o rafforzato poteri accademici localizzati nel Sud. Si è, in alcuni casi, garantito lo jus loci ad un non brillante candidato del Sud in cambio di un’idoneità ad un candidato del Nord. Ho notato, comunque, che raramente un simile scambio ha visto un candidato del Sud favorito come esterno idoneo in una valutazione comparativa promossa da una università del Nord (in molte università del Centro Italia i gruppi negoziali allargano la loro sfera al Sud). Ma, in questi casi, posso estrapolare le persone dal sistema o devo convenire che sono loro che danno forma al sistema di potere che permette questi scambi?

Inoltre, proprio in questi scambi tra poteri e in queste negoziazioni sul controllo delle risorse “meridionali”, la territorialità è emersa come una “dimensione sociale”. In quanto tale, a mio avviso, rientra nella questione del “connubio tra valutazione meritocratica e etica della responsabilità”. Un rapido sguardo alle carriere dei docenti nelle università meridionali confrontate con quelle delle università del Nord può confermare che la territorialità può essere considerata una delle dimensioni sociali, e non la sola. I dati pubblicati dal MIUR sono una mole non sempre aggiornata, e spesso non corrispondono esattamente a quelli che appaiono nei siti universitari delle facoltà e dei dipartimenti di sociologia. Tuttavia mi offrono la possibilità di un esercizio, consapevole che non ha valore statistico (mi sono data il compito impegnativo di raccogliere dati affidabili).

Prendo ad esempio un’università del Nord (Milano - Bicocca), una del Centro (Roma - La Sapienza)  e una del Sud (Napoli – Federico II), e appare che in quella del Nord i numeri percentuali di prof. Ordinari, Associati e Ricercatori disegnano una clessidra (O in alto, A al centro, R in basso), in quella del Centro il collo della clessidra è meno stretto, mentre nell’università del Sud appare una piramide con una base larghissima di Ricercatori e di Associati. Eppure, non vi è molta differenza tra le università prese ad esempio guardando l’età delle tre fasce. Si vede che gli Ordinari a Milano sono nati tra il 1940 e il 1965, a Roma tra il 1942 e il 1951, a Napoli tra il 1941 e il 1963; gli Associati a Milano sono nati tra il 1943 e il 1966, a Roma tra il 1945 e il 1964, a Napoli tra il 1940 e il 1966; i Ricercatori a Milano sono nati tra il 1952 e il 1976, a Roma tra il 1946 e il 1977, a Napoli tra il 1957 e il 1975. Ancora, elimino la quota di Ordinari del 1940-41, che dovrebbero essere pensionati/pensionabili, e, dalle percentuali di Ricercatori, Associati e Ordinari sul totale dei sociologi accademici, ho l’impressione che la concentrazione di Ricercatori giovani sia maggiore nella università del Nord, mentre sono pochi gli Ordinari in quella del Sud. Comunque vedo che il delinearsi di una piramide, più che la distribuzione per età, indica che nella università del Sud due generazioni hanno subito il blocco o l’estenuante rallentamento delle carriere, ingrossando le fila degli Associati, ormai troppo anziani per aspettare ancora una eventuale valutazione nella fascia di Ordinariato, e dei Ricercatori, ex Confermati, ex Professori Aggregati, ma ancora “giovani dalle brillanti prospettive”!

È anche questo esempio che mi rende evidente quanto possano contare le dimensioni sociali nelle valutazioni comparative per le carriere accademiche. Non so se l’etica della responsabilità delle dimensioni sociali, unita all’applicazione di criteri meritocratici, possa essere un correttivo “politico” al sistema delle cooptazioni, così come si è consolidato, e ai comportamenti sanzionabili di quella parte accademica che vi domina e che finisce per rappresentare all’esterno la sociologia italiana. Ma io provo a discuterne.


Mirella Giannini (Università "Federico II" di Napoli)



Nessun commento:

Posta un commento

Il tuo commento verrà visualizzato dopo qualche ora dall'invio. Affinché il tuo post sia pubblicato è necessario inserire in calce il tuo nome e cognome per esteso e la tua afferenza accademica: es: Mario Rossi (Università di Roma). Se dopo 24 ore non vedi il tuo post, o se hai dubbi, scrivi direttamente una mail a perlasociologia@gmail.com