domenica 10 luglio 2011

Tra crisi e riforme: il problema della qualità

Sto seguendo con grande interesse il dibattito sui problemi della sociologia italiana e vorrei fare alcune osservazioni che riprendono punti già in parte toccati, ma non emersi, mi pare, con sufficiente chiarezza.

Ridotto all'osso l'argomento sviluppato dai più è il seguente: i meccanismi di selezione non vanno e la colpa è delle tre componenti in quanto premiano la logica della fedeltà rispetto al merito. Se si eliminano le componenti e l'Ais come sede formale della loro espressione negoziale allora le cose forse si sistemano.

Ma perchè le componenti premiano la fedeltà invece del merito? Perchè la creazione di gruppi provoca una race to the bottom invece che il contrario (come pure sarebbe teoricamente possibile)? Quali sono i fattori determinanti?

Proviamo insomma a invertire il ragionamento e considerare le componenti e la loro logica allocativa come un risultato piuttosto che una premessa. L'origine 'politica' delle componenti, si è detto, porterebbe a trascurare i valori scientifici. Questo può essere senz'altro vero, ma secondo me c'è altro: lo scarso interesse dell'accademia per la qualità, la scarsa rilevanza delle competenze scientifiche delle persone nella vita dei dipartimenti e delle facoltà (parlo ovviamente del nostro settore, ma è probabile che la cosa valga anche per altri).

La cosa è confermata indirettamente dalla scarsissima mobilità del personale. Mi spiego: a me potrebbe stare bene che la mia università o dipartimento mi dicesse domani che non ha interesse a investire nei campi di cui mi occupo e invece vuole orientarsi su altri campi e che quindi per me lì non c'è futuro. Perche allora ce ne sarebbe altrove. Allora ci sarebbe un'altro dipartimento di un'altra università che invece ha interesse proprio in quello che faccio (se lo faccio passabilmente bene) e che sarebbe disposto e felice di accogliermi.Ora questo tipo di approccio, a quanto risulta dalla mia ormai quasi ventennale esperienza accademica, è quasi inesistente. Perchè le cose vanno così? Questa è la domanda di fondo, a mio modo di vedere. Perchè se ci fosse l'esigenza di selezionare il personale secondo un qualunque criterio o obiettivo di ricerca e/o didattica allora la fedeltà non reggerebbe. Non posso prendere anche il mio più caro e fedele amico se si occupa di cose che qui non servono e rispetto a piani di cui devo rispondere.

Non c'è evidentemente alcuna sanzione, finanziaria o di prestigio, se i dipartimenti e le loro figure di riferimento non perseguono una qualche finalità di eccellenza in qualche ambito ma vivono per così dire di qualunque tipo di ricerca e didattica, comunque fatta. Credo sia questa, al di là delle regole di fairness cui accenna Roberta Sassatelli [nl forum Treccani], la differenza principale rispetto al mondo anglosassone (e non solo): lì ti vengono a cercare, o considerano seriamente la  tua candidatura, se rientri in un qualche piano di sviluppo, un qualche obiettivo scientifico, altrimenti puoi essere un premio nobel ma non ti prendono.

Quindi, sicuramente è il caso di discutere seriamente la questione delle componenti e dell'Ais, ma occorre inserire tale discussione in un contesto più ampio in cui appunto sia affrontata la questione del perchè non vi sia alcun reale interesse sistemico alla qualità. Sono consapevole che su questo contesto abbiamo pochi margini di manovra, specialmente nel disastro finanziario-organizzativo che l'accademia sta vivendo, ma è importante che nel discutere dei problemi più macroscopici e ravvicinati non ci dimentichiamo del loro sfondo. In questo senso temo che la scomparsa delle componenti o anche dell'Ais, se non accompagnata da altri interventi, di per sè non servirebbe a molto, dato che le logiche della fedeltà si riprodurrebbero altrove. In maniera meno macroscopica forse, ma anche meno visibile.

Nel discutere le magagne della sociologia italiana è insomma sulle cause profonde che rendono organizzativamente "efficiente" (altrimenti non sarebbe sopravvissuto) quello che è scientificamente inefficiente che occorre interrogarsi, per inquadrare bene le manifestazioni macroscopiche dell'inefficienza che conosciamo. Sarebbe utilissimo, a tale riguardo, che i più autorevoli colleghi intervenuti sinora (e ovviamente altri di pari prestigio e anzianità accademica se decidessero di intervenire) chiarissero la genesi e le dinamiche che hanno portato non tanto alle componenti come tali ma al fatto che tramite esse si sia affermata una logica spartitoria non basata primariamente sul merito. Io per esempio non sono in grado di dire nulla al riguardo (non sono tra l'altro mai stato chiamato in una commissione di concorso), mentre loro sì, per ragioni di anzianità e per essere stati o essere tuttora protagonisti delle politiche di reclutamento.

Una ricaduta immediata di questo discorso riguarda i meccanismi di selezione. Ho letto idee e proposte  molto interessanti, in particolare da Neresini e Bimbi [dal forum della Treccani], se non ricordo male: eliminazione concorsi, criteri per svolgimento dottorati e assegnazione tenure track ecc. Sull'eliminazione dei concorsi temo ci sia un vincolo costituzionale, ma anche qualora si potesse superare personalmente sarei molto preoccupato delle chiamate dirette, se non si riesce a intaccare le ragioni strutturali per cui la fedeltà fa premio sulla qualità. Poichè appunto altrove la chiamata diretta su candidatura funziona nei limiti in cui il board che ti seleziona ha in mente degli obiettivi precisi, cui deve ottemperare al di là di amicizie e cordate.  

Anche l'introduzione della tenure track ‘all'italiana’ mi lascia perplesso, per almeno due motivi:

a) la copertura finanziaria è quanto mai precaria (a differenza di altri sistemi), legata alle contingenze del momento. Il Tremonti di turno può passare con il machete e uno si trova a spasso anche se ha lavorato bene. Idem se un ateneo va in dissesto, o una facoltà (o domani dipartimento) va in minoranza in senato accademico: senza alcuna colpa il malcapitato si ritrova a spasso anche se ha pubblicato il quadruplo di un collega più fortunato inserito in un'altra struttura. E in assenza di mobilità del personale tra atenei questo è un vero guaio.
b) se i criteri di valutazione delle persone rimangono quelli anzidetti della fedeltà, il risultato è di nuovo quello della voce a), ossia come e quanto hai lavorato conta ben poco. Ergo uno deve passare il tempo a fare pubbliche relazioni invece che a fare pubblicazioni scientifiche. Già nei concorsi attuali si vede del resto come sia di gran lunga più razionale dal punto di vista del risultato l'impiego del proprio tempo nel seguente ordine: a) relazioni sociali; b) libri, anche se stampati sotto casa, ma possibilmente grossi (e pazienza per l'ambiente); c) tutto il resto, indipendentemente dal valore della sua collocazione scientifica. In questo senso lavorare un anno - come pure succede - per veder pubblicato un articolo di 15-20 pagine su una rivista internazionale di un certo livello è del tutto irrazionale da punto di vista concorsuale. Uno lo fa quindi per altri motivi.

Pensiamo anche ai criteri numerici di valutazione preventiva come quelli che il CUN sta mettendo a punto. Anche questo è un indicatore indiretto che la qualità non è un valore diffuso, e proprio per questo si cerca di recuperarla surrettiziamente attraverso parametri "oggettivi". In altri sistemi la cosa desterebbe sconcerto, dato che non interessa quanto uno ha scritto ma cosa ha scritto e di solito se qualcuno ha scritto qualcosa di un certo interesse lo si sa senza nemmeno bisogno che i titoli vengano inviati alla commissione.

Qualunque tipo di intervento sulla sociologia italiana, quindi, è destinato a produrre risultati in relazione al contesto e al sistema di checks and balances esistente. Dopodichè, e concludo, come avviene nel diritto penale, la responsabilità è individuale. Se uno non vuole sottostare a certe regole non scritte, a cominciare da quella avvilente della citazione esclusiva degli amici e degli amici degli amici, semplicemente non lo fa. Nessuno lo obbliga. Quindi ricordiamoci che tutti noi abbiamo responsabilità personali, per il modo in cui ci comportiamo. Certo diversamente graduate. Quello che occorre oggi, mi sembra, è un grande sforzo di onestà intellettuale, proporzionato al ruolo ricoperto. Solo così saremo in grado di intervenire sulle ragioni profonde delle logiche organizzative che hanno finora prevalso nel nostro settore.

Che il cambiamento oltre che nelle strutture e nelle regole stia anche nei comportamenti è testimoniato da una esperienza piccola ma ormai consolidata (si è iniziato nel 1996, quest'anno si svolgerà a Brescia) che è quella dei convegni biennali di sociologia dell'ambiente. Convegni nati "dal basso", per genuino interesse all'argomento e senza alcun risvolto accademico (nel senso di concorsuale e annessi e connessi) e che per tale ragione, se posso esprimermi in questo modo, sono l'antitesi del modello feudale del "classico" convegno Ais. Chi vi ha preso parte, credo unanimemente, può testimoniare la totale orizzontalità e informalità degli eventi, con interventi ovviamente di qualità variabile ma con l'obiettivo di riflettere sui problemi scientifici e non su altro. C'è poi la realtà sviluppatasi da qualche anno degli incontri di sociologia della scienza e della tecnologia (STS Italia), anch'essi improntati a un modello diverso da quello "classico" all'italiana. E c'è sicuramente altro di cui non sono al corrente. Insomma, ci sono varie iniziative che fanno ben sperare per le diverse prassi che le caratterizzano e che vanno opportunamente alimentate e moltiplicate nei diversi settori di interesse.

Luigi Pellizzoni (Università di Trieste)

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