martedì 18 febbraio 2014

Lettera di Marradi a Barbieri

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.


Caro prof. Barbieri:

non ho il piacere di conoscerla, e — per il fatto che al momento risiedo e insegno a Buenos Aires — ho ricevuto ora da un allievo la sua lettera aperta di qualche giorno fa. Visto che la sua lettera commenta il documento che da qui ho co-firmato ormai parecchio tempo fa, vorrei svolgere alcune considerazioni a proposito. Non mi soffermo molto, invece,  sulla sua precedente lettera aperta del 31 gennaio in cui commenta un documento che lei chiama Maturo et al., usando espressioni pesantissime (come ‘macchina del fango’)  che per ora si erano sentite solo nella tv spazzatura tanto cara ai nostri uomini politici. Non mi ci soffermo perché non conosco (per i motivi che le dirò presto) il documento che lei attacca, e quindi non posso valutare se merita le espressioni che gli ha dedicato. Peraltro, osservo sommessamente che, se il documento Maturo et al. si limita ad osservare  — senza aggettivi — che è strano che un commissario giudichi come sociologo degno di considerazione un collega che viene dalla biologia, e sostanzialmente vi resta, mentre non dà lo stesso giudizio su decine di sociologi, non tutti giovani, che da anni o decenni insegnano la materia in posizioni di responsabilità nelle loro sedi,  allora non mi pare che gli estensori meritino questo insulto.
Sempre sommessamente, se fosse così la inviterei a chiedere scusa anche a loro, e inoltre a Carnap, a Galton (per sua informazione, l’iniziatore della scuola statistica britannica cui si deve il termine outlier) e a tutti gli alti che lei ha brillantemente superato nella successiva lettera in una sola frase di 15 parole di cui 5 monosillabe.  La riporto fedelmente:  “E’ privo di senso analizzare outlier (veri o pretesi tali) perché non serve a nulla.”  La persona che mi inoltrato la sua lettera aperta, evidentemente più addentro di me nel suo pensiero, mi ha assicurato che lei intendeva dire:  soffermarsi sulle vicende di un singolo abilitato o di un singolo commissario è privo di senso. Qualche osservazione:
1) curioso che nella frase precedente lei se la prenda invece con le medie (“E’ non solo inutile ma errato comparare medie aggregate”).  Ne inferisco che, quanto a statistica, lei mostra, oltre ad una profonda dottrina, gusti difficili.  Che tra le montagne del Trentino stia nascendo l’agognato tertium genus fra olismo e individualismo?
2) Nel primo decennio del Circolo di Vienna (sicuramente la scuola più raffinata fin qui apparsa nel campo scientista) si sosteneva la tesi audace che le frasi non immediatamente verificabili erano prive di senso.  Ma lei va ancora più audacemente oltre:  infatti — se sono stato informato bene  — l’ outlier cui lei accenna sarebbe il comportamento di un commissario che ha giudicato presentabile a un concorso di sociologia uno studioso che si era distinto come biologo.  In questo senso, adottando per un attimo la sua curiosa accezione del termine, l’episodio sarebbe due volte un outlier: perché è stato l’unico giudizio favorevole ricevuto dal candidato, e perché è stato uno dei pochissimi giudizi favorevoli emessi da quel commissario.  Ma — sempre se sono stato informato bene — la frase che lei giudica priva di senso non solo è verificabile, ma è banalmente vera.   Quindi, come dicevo, lei va audacemente oltre Carnap e soci,
3)  Non contento, lei propone anche una rivoluzione nel linguaggio:   infatti il termine 
outlier — che lei dovrebbe trattare con più riguardo data la sua ovvia origine inglese —
significa “qualcosa che giace fuori”.  Fuori da che?  dispiace rivelarglielo:  da una nube di
punti.  E a sua volte, dove giace questa nube di punti?  su un piano, delimitato da due 
coordinate cartesiane.  E quali caratteristiche devono avere le variabili per poter costituire
l’ascissa o l’ordinata?  devono essere cardinali, cioè frutto di conteggio o di (vera e propria)
misurazione.  Per quanto mi sia lambiccato il cervello, non capisco quali possano essere,
nella situazione cui lei si riferisce — sempre se sono stato informato bene  —  il piano
cartesiano e la nube di punti.
Potrei allora umilmente provare a ricostruire il senso nascosto del suggerimento piuttosto imperioso che lei intendeva impartire ai firmatari del documento Maturo el al.: “Non serve (cioè non fa comodo) al commissario X che qualcuno analizzi il su comportamento deviante”.  Messa così, mi pare, la faccenda acquista un bel po’ di senso.
Mi pare il momento di render pubblico il motivo per cui non conosco il documento Maturo et al., così come altri che sono comparsi in questa contesa.  Ho firmato con assoluta convinzione il documento che lei chiama Bianco et al. pur essendo da mesi in Argentina, ma — essendo molto occupato con la didattica in varie sedi sudamericane e con l’organizzazione di ricerche comparate Argentina-Cile-Ecuador-Italia — non ho tempo di seguire sulla rete tutto il dibattito, e mi limito a quello che cortesi allievi mi segnalano per mail.
Non sono in Argentina, Cile o Ecuador a godermi vacanze.  Ci vengo da anni perché qui trovo colleghi e studenti perfettamente comparabili, quanto a livello intellettuale, a quelli che ho conosciuto negli Stati Uniti (sul livello culturale degli studenti americani stendo un velo).  Sulle orme di un mio compianto maestro, Alberto Spreafico, do pertanto al termine ‘internazionalizzazione’ un significato affatto diverso da quello che si legge fra le righe e nella normativa universitaria, dove con questo termine sembra intendersi, e doversi intendere, l’aver goduto di una borsa giovanile in università americane, o comunque rigorosamente anglofone, e quindi l’essere autorizzati, al ritorno, a guardare il resto del mondo dall’alto in basso.  Non so se lei abbia goduto di questa illuminante esperienza nella mecca di ogni scienza e di ogni sapienza.  Al leggere nel suo documento la frase che segue si direbbe di sì:  “Dimostratemi che c’è stata distorsione sistematica e vi darò ragione, altrimenti è più elegante tacere.”
Prima reazione:  mi pare che lei cammini non a 3 metri sopra terra come qualche suo Maestro, ma a 10.  Stia attento: cadendo da così in alto ci si può far male. E se per caso uno non ha basi solide come crede di avere, cadere è facile.
Seconda reazione:  curioso che non abbia chiuso il suo periodo con la stessa frase con cui Wittgenstein chiude il Tractatus. Di solito quelli che camminano qualche metro sopra terra non mancano di farlo.  Ma forse a Trento il Tractatus è stato messo all’indice, visto ke gli unici numeri che vi compaiono si riferiscono alle pagine,


Tornando all’internazionalizzazione come americanizzazione/anglicizzazione e reificazione del merito nel conteggio delle pagine e delle citazioni (spesso a cordata, come in campione a valanga):  questa accezione del termine — peraltro condivisa anche prima da molti colleghi — è stata in tempi recenti legittimata da illustri economisti della Bocconi, che hanno fruito da neonati della borsa di cui si diceva e ora pontificano dagli schermi.  Corre voce che il ministro Gelmini, essendo  esperta di tunnel, abbia trovato naturale ispirarsi,  oltre che ai Bocconiani, ai colleghi del Politecnico di Torino.  A proposito: non so se il commissario che lei ha generosamente difeso dalla macchina del fango ritenga che quello del Politecnico è il giusto modello cui devono rifarsi i sociologi.  Sarebbe nulla di nuovo sotto il sole: per tutto l’800, e una buona fetta di ‘900, il mainstream positivista-behaviorista-operazionista-neopositivista in sociologia si è diviso equamente fra il riduzionismo alle scienze fisiche e il riduzionismo alla biologia.  Si tratterebbe quindi di un banalissimo e diffusissimo ritorno all’antico in nome del nuovo.


Prima di considerare le sue tesi centrali, vorrei commentare una frase abbastanza marginale nel suo documento: “L’alternativa è quella che ancora recentemente sembra riproporre l'AIS, cioè il ritorno alle logiche spartitorie delle componenti.”
Due osservazioni:  
1) visto che la frase è buttata lì in un contesto in cui il bersaglio critico è il documento Bianco et al.,   lei indulge al sapiente giochetto che i suoi Maestri anglosassoni chiamano hitting at a straw dog (tradotto:  sparare a un bersaglio di comodo).  L’unica difesa da scorrettezze del genere è citare la frase del documento criticato cui lei fa capire di alludere. Eccola:  “alla logica clientelare e particolaristica delle vecchie componenti di ispirazione ideologico-politico-confessionale – di cui non si parlerà mai abbastanza male – si viene sostituendo una diversa logica di appartenenza, che si manifesta come una nuova componente – questa volta paludata di academic regalia – oggettivamente presuntuosa e inevitabilmente arrogante, che dietro la “formula politica” del merito fa strage di chi, anche in modo eccellente, fa ricerca scientifica seguendo approcci diversi”.
Sostenere  in modo larvato che questa frase auspica il ritorno alle logiche spartitorie è — appunto — un eccellente esempio di hitting at a straw dog.  I suoi soggiorni anglosassoni (che intuisco:  se non ha messo mai il naso fuori da Chiasso, come diceva Arbasino, me ne scuso) sono stati fruttuosi.
2)  Seconda osservazione:  nella sua frase citata all’inizio del capoverso  — come nella diairesis platonica  — il mondo è ridotto a una serie di dicotomie:  tertium  non datur.  Invece, già nel nostro documento, tertium datur.  No al sistema delle componenti, ma no anche all’arroganza di nuovi baroni e baronetti, con la loro falange di difensori d’ufficio.


Ma è il caso di venire ai due punti che lei ritiene centrali nel suo intervento.  
Cominciamo da quello di taglio gnoseologico:  “Se si ritiene che vi siano elementi di SISTEMATICA DISTORSIONE di una distribuzione (solo questo conta: sistematica sotto-idoneazione dei candidati del sud o sistematica sotto-idoneazione dei candidati noglobal o della sociologia critica o di che altro orientamento...), si ha l'obbligo morale e scientifico di dimostrarlo (corsivo mio) a partire dai dati micro-individuali, considerando quindi l'effettiva 'popolazione a rischio' in questione (e solo quella!), ed individuando i fattori che, significativamente, portano a tale sistematica distorsione.”


Dato che il termine ‘dimostrare’ origina nella geometria, ed è stato successivamente adottato nelle altre discipline tautologiche, non lo si può adottare laddove tutta la contesa si basa su opinabili valutazioni individuali.  Sarebbe come chiederci di dimostrare che Vermeer è meglio di Botticelli, o che il lombardo Berlusconi è stato peggio del libanese-siriano Menem (un dibattito frequentissimo qui in Argentina).
Quello di voler abbattere ogni distinzione fra discipline tautologiche (che stabiliscono solo regole per trasmettere certezza da un asserto a un altro) e scienze, e in cambio elevare barriere invalicabili fra scienza e valutazioni, sfruttando un’interpretazione di comodo della Wertfreiheit di Weber,  è una delle caratteristiche dello scientismo.  Ma non c’è bisogno di una preparazione gnoseologica per capire che la scienza non può raggiungere certezze.  Basta riflettere sulla sua storia: continui cambiamenti di teorie.  Se la scienza potesse raggiungere certezze, i dibattiti sarebbero finiti da tempo, e la stessa scienza si limiterebbe a remotissime articolazioni del paradigma dominante.
Quindi, chiedendoci di dimostrare una volontaria distorsione sistematica (la cito)  nei giudizi della commissione lei ci chiede una prova in due sensi diabolica:
  • perché bisognerebbe valutare uno per uno i prodotti di centinaia di candidati — e quando si entra nel campo del valutare, il ricorso alla dimostrazione è precluso.  Si figuri che una dimostrazione richiede persino termini univoci e perfettamente definiti;  altro che la soggettività del valutare...
  • perché bisognerebbe valutare commissario per commissario, giudizio per giudizio, la natura volontaria (cioè sistematica, non aleatoria) della distorsione.


Se è così, mi dirà lei, di che vi lamentate? Nulla quaestio.


E no, caro collega:  nelle scienze gli asserti (in questo caso le tesi del nostro documento) non sono decidibili come in matematica, ma sono corroborabili.   A un certo punto lo riconobbe anche Carnap (il cui scientismo era talmente cristallino che pensava di trasferire la verità per via induttiva da affermazioni protocollari come “Otto [sarebbe Neurath]  qui vede blu” alla leggi di gravità di Newton):  rinunciando in nome dei colleghi alla tesi del primo Circolo di Vienna secondo la quale un asserto non immediatamente verificabile era addirittura privo di significato, concesse (sarebbe questa la tanto celebrata “liberalizzazione” del Circolo di Vienna)  che un asserto può essere, se non definitivamente verificato, cioè dimostrato vero, quanto meno corroborato.
E allora veniamo al punto.  Nel nostro documento, fra le mille cose, si legge:  “dei 29 abilitati, 25 sono concentrati nelle regioni del Nord: Centro e Sud insieme contano in tutto 4 abilitati  [fra i quali una in realtà è trentina/bolognese di origini e legami  — aggiunta mia sulla base di successive informazioni]; per quasi un terzo, gli abilitati appartengono a sedi della stessa città (Milano);
Per la seconda fascia, dove non sono ovviamente indicati né la sede né il settore, si possono solo segnalare le tendenze in atto: circa 60 su 71 abilitati (le domande presentate sono 424) provengono da università del Nord; di questi circa 15 (un quarto) da Milano, una decina da Trento.”
Ora:  questo non prova una distorsione sistematica nei giudizi a favore del Nord, e in particolare  di un asse Milano-Trento;  ma ne appare una forte corroborazione:  tanto più per chi come me ha insegnato dal 1969 un po’ dovunque in Italia (per restare al Nord, 7 anni a Bologna come prima cattedra, molti anni nel dottorato dell’Università di Trieste, e spesso in seminari a Torino e alla Statale.  Passando all’infelice centro-sud minus habens, a Firenze, Siena, Roma, Napoli, Salerno, Unical, Lecce, Catania) e non ha notato affatto quelle differenze sistematiche in re di cui sono convinti i colleghi Barbera,  Santoro e Reyneri.  Naturalmente la mia è una valutazione;  ma si basa su attente considerazioni delle capacità intellettuali di ciascun alunno, dei suoi interventi orali, delle sue tesi lette e corrette. Praticamente, come i miei allievi sanno, non ho fatto — e non so fare — altro nella vita.
Ancora più impervio è DIMOSTRARE che i due membri della commissione la cui connessione (corroborabile con una semplice distribuzione congiunta di voti) è bastata per far fuori decine di valorosi sociologi, nonché la vera e propria cordata dei loro difensori, fra i quali lei è eminente,  siano affetti da scientismo.  Non mi provo nemmeno a dimostrarlo:  ho accennato or ora a una corroborazione di tipo inferenziale.   I cinque lettori (ne prevedo meno di Manzoni)  che sanno cosa è lo scientismo valuteranno da sé (anzi, a giudicare dai documenti e lettere che mi sono arrivati per mail fin quaggiú, hanno già valutato).  Agli altri cinque che non lo sanno, ho colto l’occasione per fornire qualche (del tutto insufficiente) caratterizzazione del concetto.  Se capita, ne offriró qualcun’altra.


E vengo all’altro punto che lei ritiene centrale.  Per non farle alcun torto (e anche perché non saprei come sintetizzarlo, dato che mi ha lasciato a dir poco perplesso) lo cito testualmente — per il caso che a qualcuno fosse sfuggito un simile capolavoro di sequitur concettuale e di precisione terminologica..


“E' NON SOLO INUTILE MA ERRATO COMPARARE MEDIE AGGREGATE, QUANDO SI PRETENDE DI DIRE QUALCOSA SULLE DETERMINANTI DELLA DISTRIBUZIONE DI UN QUALSIASI FENOMENO.
Ci sono rischi di selection bias, di eterogeneità non osservata, di fattori determinanti che non possono essere bypassati allegramente. Ciò è invece proprio quello che fanno i firmatari del documento “Dove va la sociologia?”. E sbagliano. Spiace che colleghi tanto navigati cadano in errori da studenti.”


Vediamo se, camminando a livello del suolo, cioè 10 metri sotto di lei, riesco a capire cosa intende dire.  Come si consiglia di fare per venire a capo dei densi agglutinati della lingua tedesca, conviene scomporre il groviglio pezzo per pezzo:  comincerei dal selection bias.
Se questa espressione si riferisce a un bias da parte di chi ha scritto il documento nel fare i conti, per cui — al fine di rendere ancora più clamorosa la lezione che i depositari della scienza sociologica hanno inflitto al CentroSud  minus habens — i biechi redattori hanno aumentato il numero dei beneficiati nelle terre della Lega e invece scordato nel conto qualche terrone (tanto, nessuno se ne accorge:  sono terroni),  è un bias che, trattandosi di numeri e non di valutazioni, lei può — per usare un termine che adora, e sul quale torneremo — dimostrare.  Ci si provi.
Se questa espressione si riferisce invece a un bias (sempre a favore delle terre della Lega e a danno dei terroni) della commissione che selezionava i candidati  (e questo, guarda guarda, sarebbe proprio il significato filologico di selection bias) questo non è a rigore dimostrabile, perché coinvolge una valutazione del rapporto esito-merito; ma il nostro documento ne ha fornito una fortissima corroborazione (vedi sopra).
Se infine l’espressione si riferisce al fatto che —  come sostenuto da vari difensori d’ufficio della commissione, tutti o quasi facenti parte della cordata dei promossi  — i terroni si sono presentati in gran numero, si tratta se mai di qualcosa di simile ad una self selection (si parla di self selection quando a una domanda qualsiasi tendono a rispondere più frequentemente gli interessati al problema che gli altri, distorcendo la casualità di un campione).  Ma a questo punto mi sembra quanto meno inopportuno il ricorso al termine bias (che nel contesto del discorso del collega getta ombre di falsa coscienza su qualche membro della commissione).  Probabilmente, anche alla luce del suo contesto, lei intende dire che la tendenza dei terroni a presentarsi in massa anche se analfabeti ha abbassato la percentuale (non la media) dei promossi dal Centro-Sud.
Secondo quanto ha scritto un abilitato (quindi, certo non sospettabile di rancori verso la commissione), però, i candidati del Sud  erano in numero minore (io non ho controllato:  lo faccia lei, così bravo coi numeri).  Ma se quanto afferma il nostro abilitato fosse vero,  la tesi difesa dalla cordata dei promossi (il grande numero di bocciati terroni deriva dalla loro incapacità di valutare i propri limiti e quindi dal loro presentarsi in massa)  si infrangerebbe  nella glaciale impersonalità dei numeri.  Per usare i suoi termini, si DIMOSTREREBBE falsa per falsità della premessa maggiore.
Ma anche prescindendo da quanto ha affermato questo abilitato,  nella sua argomentazione lei salta alcuni passaggi necessari:  per “dimostrare” la sua tesi che i terroni si presentano in massa avrebbe innanzitutto dovuto esibire una frazione, con al numeratore il numero di candidati provenienti dal Centro-Sud (la commissione ha infatti manifestato una visione della terronia ancora più ampia di quella del lombardo Bossi, che a suo tempo ammise, con autorevole sprezzo della geografia, la Toscana nella sua Padania) e al denominatore una qualsiasi normalizzatore plausibile:  il totale degli adulti nelle stesse regioni, o il totale nelle fasce di età appropriate, o il totale della popolazione universitaria di questo o quel livello.  Dopodiché, confrontata questa frazione con analoga frazione calcolata sul colto e inclito Nord padano, e riscontrata una differenza significativa, avrebbe potuto dimostrare (usando una volta tanto quel termine a proposito, perché si tratta di puri numeri senza valutazioni)  il primo segmento del suo ragionamento, e cioè che i terroni hanno fatto, proporzionalmente a qualche parametro adeguato, più domande  degli abitanti del Nord padano.
Restava da argomentare il segmento più importante, e cioè che questo fenomeno,  e non un bias della commissione, è stato il motivo della straordinaria differenza di percentuali (Barbieri parla di medie, ma va perdonato:  una delle caratteristiche dello scientismo — e qui in prima linea va messo Popper, che la proclama ad ogni pie´ sospinto — è la noncuranza per l’uso appropriato dei termini:  sono passati i tempi di Raimondo Lullo, di Leibniz e di Frege, che gli scientisti  potrebbero a buon diritto di rivendicare come loro precursori, ma hanno il torto di essere nati prima di Bush, e quindi essere praticamente ignoti nella principale fucina di scientisti.
Per fare questo, lei avrebbe dovuto argomentare (non dimostrare, dato che qui si tratta di valutazioni) che la commissione era unbiased.  Oltre che sostenerlo, avrebbe dovuto corroborarlo, con quei numeretti che le piacciono tanto:  (sua) disgrazia vuole che quei numeretti corroborino invece la tesi opposta, cioè la nostra.
Abbiamo così sgrovigliato, sostituendo un termine e ripristinando accezioni corrette di un’espressione, due bandoli della matassa.  Per la verità, ci sarebbe ancora da rilevare una ridondanza:  l`espressione ‘medie aggregate’:  E’ ridondante perché ogni media presuppone un aggregato di riferimento.  Con un termine solo non si può parlare di media.  Capisco però che, quando ci si riferisce ai terroni, repetita juvant.
La matassa appare ora un po’ meno intricata, e pertanto, rileggendo la sua frase (anche il lettore può farlo risalendo qualche capoverso e trovando la citazione rispettosamente letterale) mi provo a sintetizzare il suo pensiero.  Naturalmente posso sbagliare, e attendo l’interpretazione autentica.  Ne sento il bisogno  — e a quanto mi risulta non sono il solo.  Dopo aver premesso tutte le scuse del caso, azzarderei che lei intenda dire che se si vogliono individuare le cause di un fenomeno (in questo caso una macroscopica differenza di percentuali di abilitati in due aree del paese)  non ci si può limitare all’analisi bivariata (appunto il confronto fra percentuali).  
Se questo intende dire la frase, confesso che da un collega che cammina a 10 metri dal suolo, e che si presenta come un promettente virgulto di una Grande Scuola che ha traversato il mare come la casa di Loreto e si è fermata a Trento  (dove il Concilio le aveva preparato il terreno adatto), mi sarei aspettato qualcosa di meglio.  E’ ovvio che l’analisi bivariata è solo l’inizio del discorso: se essa rivela una pepita nel torrente grossa come quella differenza di percentuali, ogni ricercatore che abbia rispetto di se stesso sente l’imperativo di andare avanti.  Ma come lo scientismo insegna, da Durkheim in poi,  per andare avanti occorrono “fatti sociali”,  cioè dati  (aggiungo:  rilevanti).  E questi dati il ministero non li raccoglie, o non li mette a disposizione.  Quindi l’interrogativo resta aperto —in questo caso, aperto come una ferita che rischia di andare in cancrena se non si interviene.
Lei invece si limita a elencare alla rinfusa alcuni annosi e molti problemi della ricerca sociale multivariata, e se ne serve per invitare a chiudere il cadavere nella tomba.
Questo atteggiamento è il contrario della scienza  — come tutto lo scientismo lo è.


Mi si concedano infine, visto che il tema furoreggia ed è diventato un must, due parole a proposito della peer review come vene effettuata nelle riviste americane più quotate.  Ricordo che in un numero della “American Sociological Review” nel ‘55 uscì un articolo (il collega può controllare, visto che cerca DIMOSTRAZIONI) di due sociologi americani, Edward Rose e William Felton, che sostenevano di aver ricostruito in laboratorio i processi di diffusione di elementi culturali fra una società e l’altra. Le “società” erano costituite da tre gruppi di tre individui ciascuna. Gli elementi culturali erano costituiti dalle interpretazioni che ogni gruppo dava alle macchie dei test Rorschach durante una “epoca” (16 minuti). La loro diffusione fra una società e l’altra consisteva nell’eventuale mutamento di tali interpretazioni quando un individuo veniva spostato da una “società” all’altra, e si apriva una nuova “epoca”. Il fatto che una sciocchezza del genere sia stata pubblicata sulla prestigiosa “American Sociological Review” la dice lunga sul buon senso dei referees di quella rivista  —  almeno in quel periodo.  Visto che il 9 (3 x 3)  era un numero sacro a Pitagora, può darsi che — in epoca e in terra di quantofrenia — questo elemento abbia offuscato il giudizio degli emeriti referees.
Sempre a proposito della sacertà delle riviste americano con peer review.  Come allievo di Sartori e suo collaboratore in una ricerca multinazionale, ho frequentato negli anni 70-80 vari congressi dell’APSA, ASA e IPSA.  Ogni volta c’era qualche matto che presentava un paper in cui sosteneva di essere il nuovo Newton  (il culto di Newton, diffuso sul continente da Voltaire ed ereditato da Saint-Simon, è la prima radice dell’atteggiamento scientista nelle scienze sociali).  Con mia (non grande) sorpresa ho ritrovato uno di questi papers pubblicato da una delle due maggiori riviste sociologiche americane (non ricordo né l’autore né la rivista,  e quindi non lo posso dimostrare come richiede il mio interlocutore;  ma me lo lasci raccontare perché è troppo divertente).  Per presentarsi come l’erede di Newton nelle scienze sociali l’autore aveva copiato il registro dei visitatori del parco di Yosemite in California.  E aveva scoperto che il numero dei visitatori diminuiva con una funzione grosso modo esponenziale della distanza dal parco alla residenza del visitatore.  Così come la forza di attrazione fra due corpi è funzione inversa del quadrato delle loro distanze.  Gli mancava ancora un  pezzo della formula:  come massa del visitatore prendeva il suo peso, ma calcolare la massa del parco Yosemite era un problemino anche per il nuovo Newton.
Da allora (primi anni 80) ho perso ahimé l’abitudine di visitare assiduamente le venerabili riviste anglosassoni con referee.  Ma scommetterei qualcosa che perle del genere se ne possono ancora scovare.  Chissà come le difenderebbero i nostri colleghi bocconiani, o politecnici, o altri consiglieri del ministro Gelmini, predecessori e successori compresi.


Cordiali saluti al collega e ai miei dieci lettori.


Alberto Marradi

4 commenti:

  1. Da ex docente e ricercatore di statistica psicometrica, ora titolare di corsi di analisi dei dati per la ricerca sociale, mi permetto di fare i complimenti (anche se non ne ha certo bisogno) ad Alberto Marradi per questo pezzo, una vera 'chicca metodologica'. Lo userò certamente nei miei corsi di metodologia e/o di statistica. Lo affiancherò a un altro testo che già uso da tempo (per magistrali e dottorati) e che è a mio avviso formativo per chi ha a che fare con le analisi dei dati prodotte da sociologi: "Incompresa. Breve guida a un uso informato della regressione nella ricerca sociale", di Maurizio Pisati, pubblicato sulla RIS nel 2010.
    Può apparire un accostamento eccentrico vista la sede e la natura del dibattito; eppure i due scritti hanno qualcosa in comune: lascio al lettore (dei 10 presunti) più attento e curioso il compito di fare il collegamento. Un piccolo indizio: si veda il paragrafo 3 del citato articolo di Pisati "la regressione pret-à-porter".
    Roberto Albano - dipartimento di Culture, Politica e Società - Torino

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  2. Ringrazio il prof. Marradi della risposta colta ed erudita, dalla quale tuttavia dissento, anche su alcuni aspetti tecnici. Sono felice comunque che riconosca che le differenze di percentuali (o di medie, dato che in una distribuzione 0-1 si equivalgono!) siano solo un campanello d’allarme che richiede un’analisi rigorosa, che però, malgrado la profusione di sarcasmo e citazioni, ancora manca. Nell’attesa che questo vuoto sia colmato da chi ritiene che le analisi esistenti (ad esempio, quelle di Emilio Reyneri) non siano convincenti, la saluto cordialmente.”

    Ad Albano, che non conosco, regalo invece una citazione da aggiungere alla bibliografia dei suoi corsi.
    “E’ ovvio che l’analisi bivariata è solo l’inizio del discorso: se essa rivela una pepita nel torrente grossa come quella differenza di percentuali, ogni ricercatore che abbia rispetto di se stesso sente l’imperativo di andare avanti. Ma come lo scientismo insegna, da Durkheim in poi, per andare avanti occorrono “fatti sociali”, cioè dati (aggiungo: rilevanti). E questi dati il ministero non li raccoglie, o non li mette a disposizione. Quindi l’interrogativo resta aperto —in questo caso, aperto come una ferita che rischia di andare in cancrena se non si interviene”. Alberto Marradi


    PAOLO BARBIERI

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  3. Ringrazio Barbieri per il regalo dela citazione, anche se a dire il vero la conoscevo (e mi pare di ricordare che manca una frase successiva importante per comprendere il senso del ragionamento di Marradi).
    Invece sono incerto se riportare agli studenti quest'altra citazione:
    "le differenze di percentuali o di medie in una distribuzione 0-1 si equivalgono!"
    Qui devo ammettere che la mia formazione statistica sarebbe da svecchiare con il nuovo paradigma asserito nella frase tra virgolette. Faccio un esempio da manuale: 10 casi, 6 con valore 0 e 4 con valore 1. Facciamo la media e otteniamo 0,6, almeno credo. Ora, secondo la teoria novissima tale media equivarrebbe direttamente a una percentuale: 0,6% dunque.
    Devo ammettere che sono affascinato, ma al contempo non mi sento ancora pronto per introdurla a miei studenti, istruiti a interpretare quello 0,6 come frequenza relativa unitaria. Sarei però onorato di avere il Prof. Barbieri ospite in un mio corso a presentarla.
    Sarebbe l'occasione per presentare il suo modo altrettanto innovativo di interpretare i risultati della regressione logistica, 'incompreso' da chi ostinatamente (come Pisati o come, più modestamente, me) resta ancorato alle interpretazioni standard.
    Smetto di sognare e torno alla realtà (10 metri sotto il livello di Barbieri): attendo con ansia, come molti altri colleghi del resto, un suo nuovo saggio basato sull'analisi dei dati (provo a indovinare il prossimo: un innovativo saggio sull'ipotesi del bus).
    Cordiali saluti
    Roberto Albano - Dipartimento di Culture, Politica e Società

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  4. Rileggendo il mio post precedente mi sono accorto che nell'esempio ho invertito gli uno e gli zeri. Non voleva essere un tentativo di innovazione statistica.
    Leggasi quindi correttamente: ": 10 casi, 6 con valore 1 e 4 con valore 0."
    Mi scuso con i lettori.
    Roberto Albano

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