domenica 2 febbraio 2014

DOVE VA LA SOCIOLOGIA 2. Riflessioni e commenti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il secondo documento firmato da Bianco, Giovannini, Marradi, Rositi e Sciolla.  Il documento, già pubblicato in altre sedi, riprende e commenta il post di Barbera e Santoro ("Avanti con giudizio. Riflessioni agrodolci su riflessioni amare") e l'analisi di Reyneri a partire dai dati della VQR ("Per una seria riflessione sullo stato della sociologia"), entrambi pubblicati nei giorni scorsi su questo blog. Ci auguriamo che il dibattito prosegua, anche alla luce dei risultati dei lavori della terza e ultima commissione di sociologia (14/C2), adesso disponibili. Il documento viene pubblicato nella versione inviataci e pervenutaci. Corre l'obbligo di precisare, tuttavia, che la nota 1, che critica un post pubblicato da Luigi Pellizzoni in questo blog ("Il vezzo nazionale") ha dato luogo a una polemica (l'autore ha replicato che le cose stanno in modo completamente diverso), di cui i lettori interessati trovano documentazione sul Forum AIS e nel blog ROARS.

1. Benché tirati da tutte le parti, con grazia o con malanimo, vorremmo cercare di mantenerci sul terreno che avevamo scelto fin dall’inizio, quello di una seria e pacata discussione su cosa attenda la sociologia italiana e sulle trasformazioni che non da oggi la stanno investendo. Naturalmente non abbiamo evitato, e non lo faremo nemmeno in questo secondo documento, di confrontarci con quell’evento che è l’Abilitazione Scientifica Nazionale, vuoi per la nettezza con la quale si presenta, vuoi per la forte accelerazione che potrebbe imprimere ai processi in corso, vuoi infine per limitarne e contrastarne, se possibile, gli effetti a nostro parere più dannosi e ingiusti – per i singoli e per la comunità sociologica.
Dove va la sociologia è uscito il 3 gennaio 2014 a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione dei risultati dell’ ASN. È stato il primo documento a prendere posizione su questa infelice vicenda. Da allora, gli interventi sono stati numerosissimi e hanno coperto tutto il continuum espressivo tollerato da chi li ospitava: da rapidi commenti di poche righe a scritti a forte valenza interpretativa (vedi Borrelli, Campelli e altri) fino a contributi disciplinarmente strutturati e ben documentati (Chiesi; Freschi, Mete e Sciarrone; Di Franco; Anzera e Pintaldi; ecc…).

Oggi, quindi, il materiale su cui riflettere è molto più ricco e dunque le posizioni possono essere più variegate e anche poggiare su basi più solide. Noi co-firmatari, in fondo, siamo partiti semplicemente da un dato di straordinaria chiarezza: e cioè l’inspiegabile differenza percentuale di abilitati del settore di Sociologia generale (tra il 16.7 e il 19.6%) rispetto alle altre discipline (che si collocano in media tra il 43.5 e il 44.6%). E ancora oggi, a distanza di qualche settimana, continuiamo a pensare che questo, nella sua rozzezza numerica, sia il dato fondamentale. È da questo dato che già nel primo documento abbiamo fatto derivare tutta una serie di altre analisi: ed è da esso che anche questa volta vogliamo partire confrontandoci per quanto possibile con un dibattito che ha avuto toni e contenuti non facilmente governabili.
La ragione è semplice. Da qualunque parte lo si guardi, quella incredibile differenza percentuale è un dato fortemente anomalo. Sostenere, come fanno i difensori d’ufficio della commissione, che è semplicemente il risultato oggettivo di una valutazione meritocratica nasconde l’incapacità di rispondere o, peggio, la volontà (consapevole o meno) di nascondere le vere determinanti di quella selezione. Un’azione di occultamento che fa classicamente uso della denigrazione (“siete dalla parte dei lassisti”, “volete l’ope legis per tutti”, “rifiutate il merito”, “mirate ad un ritorno al passato”, eccetera) e qualche volta della menzogna[1]. Purtroppo, alla statura intellettuale (quando c’è) non sempre corrisponde una statura morale, perché a queste pratiche si sono uniti anche colleghi e studiosi per altri versi stimabilissimi.


2.             Ciò che colpisce, trattandosi di un confronto tra persone che fanno un lavoro intellettuale, è la generale difficoltà di capire le argomentazioni dell’altro – o, forse, il rifiuto di capirle. È il caso (non l’unico purtroppo) della puntuale (e puntigliosa) replica di Barbera e Santoro (6 gennaio 2014) al nostro documento. La negazione delle ragioni da noi espresse è totale: punto per punto, e con crescente animosità, i due si affrettano a demolire ogni minima critica possa essere fatta all’operato della Commissione di Sociologia generale, politica e del diritto. Non scenderemo su questo terreno, né vogliamo imitare il loro stile totalizzante di polemica. Cominceremo anzi col riconoscere che ci sono buone ragioni nella loro critica alla diagnosi di scientismo con cui il nostro documento tende a caratterizzare l’operato di quella Commissione.  In parte, a nostra scusante (ma come accade normalmente in queste occasioni) la nettezza del taglio interpretativo è dovuta allo stile dialogico (o dialettico se volete), che lascia da parte sfumature, precisazioni o eccezioni (che si danno per scontate). Ma in ogni caso è vero che non abbiamo documentato a sufficienza la nostra critica. Cercheremo in seguito di fare un’analisi per quanto possibile accurata degli orientamenti metodologici dei candidati (e il confronto fra i due gruppi: idonei e non idonei), per quel che se ne può dedurre dall’elenco delle pubblicazioni – e immaginiamo che il numero dei casi incerti non sarà piccolo e che comunque una stima di massima resterà possibile. Ma anche se l’accusa di scientismo apparisse alla fine fondata o comunque non infondata, ora bisogna ammettere che essa è stata formulata per lo meno prematuramente. Per alcuni di noi, ciò che ha portato a sottoscrivere l’accusa è l’idea di una equivalenza fra scientismo (nelle nostre “scienze”) e atteggiamento dogmatico, tendente all'intolleranza e al settarismo, atteggiamento ben rappresentato nella commissione. Tutto ciò sia detto, ben inteso, nella finzione che noi si abbia una comune nozione di scientismo, un concetto di per sé molto nebuloso; ma anche Barbera e Santoro lo trattano come se il significato ne fosse chiaro (cioè non ne discutono l’intensione, ma solo l’estensione), e quindi noi ci adeguiamo. Chiudendo comunque su questo punto: se l’accusa di un bias scientista non reggesse (e non stiamo dicendo che non regga), allora eventuali comportamenti ingiustificati di quella commissione dovrebbero attribuirsi a ragioni per così dire peggiori di quelle ideologiche.
Altro esempio. Barbera e Santoro sostengono che quella commissione è stata semplicemente e meritevolmente rigorosa, e che perfino eccessi di rigore (i giudizi sbrigativi di un commissario che essi stessi ricordano, e qualche errore di valutazione che essi stessi ammettono e considerano cosa comprensibile quando i candidati siano così numerosi) sono da considerare perdonabili davanti alla grande opera che quella commissione avrebbe compiuto con l’aver decretato la fine del lassismo scientifico nella nostra disciplina. Lasciamo da parte certo tono trionfalistico con cui è salutato questo nuovo presunto inizio e attribuiamolo semplicemente alla evidente vocazione leaderistica che i due vanno da qualche anno esprimendo. Resta il fatto davvero spiacevole che nella loro polemica Barbera e Santoro (come non pochi altri intervenuti posteriormente) vogliono far intendere (con il chiaro intento di screditarci) che noi estensori del documento Dove va la sociologia si sia schierati per valutazioni alla “todos caballeros”: quando in realtà nel nostro documento non si dice mai che ci saremmo attesi una percentuale di “promossi” a livello della media (intorno al 44%) rilevata nelle procedure di valutazione finora esperite in altre discipline. Si dice semplicemente, torniamo ancora una volta al punto cruciale, che percentuali del 19.6% nella prima fascia e del 16.7% nella seconda in termini statistici sono abnormi outliers. Né vale invocare genericamente la particolare base dei dati di partenza, cioè certa debolezza che nella nostra disciplina si è accumulata con qualche decennio di cattive pratiche gruppettare: abbiamo richiamato più volte, nel documento, questa nostra storia infelice. Ciò che però andrebbe giustificato è che la distanza fra la sociologia e le altre discipline sia davvero così enorme (quasi intorno a un terzo!). Chiunque non si sia rinchiuso in un dipartimento di sociologia dovrebbe aver agevolmente constatato che, quanto a povertà intellettuale e a semplificazioni di comodo entro recinti di comodo, molti colleghi di altre discipline umanistiche (e non solo) non scherzano affatto, e che davvero non varrebbe la pena ancorare i nostri ideali di sviluppo disciplinare a confronti generici con corporazioni accademiche meglio assestate che la nostra.
Ugualmente per il confronto Nord-Sud. Nel nostro documento non si dice affatto che la percentuale di promossi del Nord e di promossi del Sud avrebbe dovuto corrispondere alle loro rispettive basi di partenza. Si dice soltanto che la sproporzione è eccessiva. Se davvero la commissione si fosse comportata con equità sulle differenze Nord-Sud, dovremmo concludere in modo molto più drammatico le nostre considerazioni sulla sociologia italiana: non può che essere colpa di tutti, e certamente anche insediata in qualche frame inconscio della nostra cultura e della nostra moralità, se il divide sociologico Nord-Sud fosse davvero così grande.
Abbiamo pochi dubbi, infine, su una delle nostre conclusioni: la commissione non ha ubbidito al suo mandato pubblico. Il mandato pubblico che le è stato affidato è quello di rispondere, per ogni candidato, alla domanda se egli fosse o meno “abilitato”. Interpretare unilateralmente questo mandato in termini concorsuali (vale a dire come selezione dei migliori concorrenti per un numero di posti limitato) significa, semplicemente, sostituire un mandato pubblico reale con un compito ideale che qualcuno arbitrariamente e con arroganza ha assegnato a se stesso, e peraltro, come continuiamo a constatare in questi giorni di polemica, senza neppure una rigorosa indagine dei meriti.
Questo non significa da parte nostra legittimare la macchina abilitativa. Al contrario. Se è vero che in certi climi può funzionare (per esempio, ha funzionato abbastanza bene e a lungo in Italia – con l’eccezione di medicina – nel caso della libera docenza), nelle condizioni odierne questa forma di selezione del ceto accademico va probabilmente incontro a molte critiche: alcuni di noi, va detto, la ritengono una nuova grave iattura. Ma considerazioni di questo tipo non autorizzano nessuno a sostituire regole pubbliche con regole private. È inevitabile, per chi si arroga il diritto di seguire regole private, immettere nelle sue pratiche valutative qualche senso di onnipotenza. Da questo non può venire nessun bene per la nostra disciplina, la quale, come tutte le discipline della conoscenza, ha bisogno anche di una responsabile assunzione di compiti organizzativi e fiduciari collettivi, scevra da puntigli personali.


3.             Un altro intervento, quello di Emilio Reyneri (Per una seria riflessione sullo stato della sociologia italiana del 18.1.2014) si presta bene a documentare alcune delle affermazioni avanzate nel nostro primo documento. Reyneri manifesta una così tranquilla coscienza di essere nel giusto e nel certo che non si accorge neppure di ciò che gli sfugge dalla penna. Le sue analisi diventano facilmente dimostrazioni di ciò che vuole confutare. I due punti intorno ai quali si articola tutto l’intervento di Reyneri sono: 1) l’esito della VQR e 2) il confronto sistematico tra Sociologia generale e Sociologia economica.
Sul primo, la sua posizione è netta. Si può escludere “almeno sui grandi numeri, ogni vizio di parzialità” (corsivo nostro). Affermazione apodittica, ci pare, che azzera di un colpo tutto il dibattito sulla valutazione nelle scienze sociali, i suoi limiti e le sue criticità[2]. E peraltro, a ben vedere, affermazione contraddetta subito dopo, quando “giustifica” la bassissima percentuale di abilitati in Sociologia generale con il richiamo agli esiti dei precedenti concorsi locali, che l’avevano già “premiata” in termini di posti. Il confronto, francamente improprio, è con il suo ex settore di appartenenza, l’SPS/09 (che aveva acquisito  meno posti) quasi che fossero entità paragonabili per dimensione e centralità.. Non diversamente per lo squilibrio Nord-Resto di Italia. “Ma che colpa abbiamo noi” – sembra dire – visto che la VQR aveva già registrato una oggettiva differenza di qualità sociologica tra le due aree del paese? In realtà, nelle stesse tabelle riportate da Reyneri le gerarchie territoriali sono più sfumate di quanto emerge dall’abilitazione[3]. Per esempio, nella VQR Roma Tre e Catanzaro hanno punteggi più elevati di Torino e Milano Statale, e Palermo è alle loro spalle con un distacco veramente contenuto.
Alle ragioni storiche delle differenze Nord-Sud, che pure ci sono, Reyneri accenna rapidamente, anche se con varie imprecisioni, qui comunque poco importanti. Ciò che non fa è interrogarsi sul senso di questi processi e su quali fisionomie veniva via via assumendo di conseguenza l’intera sociologia italiana. Non si venivano perdendo tradizioni culturali e metodologie di lavoro tipiche della sociologia europea? Per fare un solo ma importantissimo esempio: non è che da un generico processo di “modernizzazione” esce impoverito il panorama complessivo della sociologia italiana? Che fine hanno fatto la pratica e il gusto dell’interdisciplinarietà? Dove si è perso il legame con la storia? A quali rinunce di libere analisi e riflessioni ha costretto l’adeguamento al mainstream sociologico internazionale? Sia chiaro che nessuno sottovaluta la ricchezza e le aperture che possono derivare dal processo di internazionalizzazione della nostra disciplina. Ma sostenere – come scrive Reyneri -  che arretratezza e provincialismo delle scienze sociali italiane sono dovuti allo scarso numero di pubblicazioni in inglese e alla scarsa presenza di articoli pubblicati in riviste internazionali è di una superficialità sconcertante. Si aggiunga che ad apporre il timbro della “giusta” internazionalizzazione sono nei fatti – secondo le valutazioni espresse nei giudizi abilitativi da uno dei Commissari – pochissime riviste sociologiche di lingua inglese e che la qualità scientifica è garantita solo dalla pubblicazione in un paio o poco più di case editrici (naturalmente di lingua inglese): nessuno si chiede l’effetto omologante che può avere sulla sociologia una simile pratica quasi-monopolistica?[4]
Siamo certi che Reyneri sia ben consapevole di tutto questo. Ma (e qui non è solo), avverte per la nostra disciplina un profondo bisogno di legittimazione che evidentemente non gli può che venire dall’esterno. Un esterno dove tutte le scienze sociali ormai da quasi un secolo – un secolo, caro Emilio – hanno via via smarrito la loro natura unitaria, dividendo ciò che è indivisibile, fino a quelle estreme semplificazioni delle domande di ricerca alle quali si possono “finalmente” applicare le raffinate tecniche delle scienze dure. Se senza o con ovvi risultati, come accade spesso, non ha molta importanza: l’importante è che ci sia comunicazione, trasmissibilità, internazionalizzazione, un linguaggio condiviso – matematica o inglese che siano. Ciò che conta è che si rispettino gli standard internazionali (standard, già, è parola che dice tutto), che un esercito di burocrati del sapere sorvegli gli spiriti irrequieti dell’innovazione, che solo chi ha accesso ai pochi templi della scienza (riviste o collane che siano) può essere legittimamente tra gli eletti.

Quanto al secondo punto, le valutazioni di Reyneri risentono fortemente – come è giusto ed umano che sia – della sua lunga appartenenza alla Sociologia economica, che per ragioni che potremmo definire semantiche se non terminologiche ha avuto maggiori occasioni di confronto con le scienze economiche. Ne ha subito, come molti colleghi di settore, il fascino indiscreto (a dire il vero, l’innamoramento non è stato reciproco): convincendosi evidentemente che metodi di lavoro, paradigmi interpretativi, strumentazione tecnica, concetti e categorie largamente dominanti, e ormai da tempo, nella scienza sociale sorella, si potessero/dovessero applicare anche alla nostra disciplina. E che certe modalità di lavoro scientifico, di valutazione dei suoi prodotti, e persino di usi e pratiche accademiche fossero un buon modello cui fare riferimento. Convinzione del tutto legittima, è ovvio: che però lo porta quasi inevitabilmente – nel suo intervento – a valutare ciò che è accaduto nel settore di Sociologia generale dall’angolo visuale del frequentatore di ricerche e studi di sociologia economica. Con due conseguenze: 1) un misconoscimento della centralità oggettiva della sociologia generale, vista complessivamente come un settore attardato su interessi e metodi di lavoro obsoleti e sostanzialmente fuori dal circuito internazionale[5]; 2) una valutazione degli output (persone e cose) di questo settore messi meccanicamente a confronto con gli output della sociologia economica: con tutte le distorsioni che derivano da logiche di appartenenza e consuetudini di lavoro. Per rovesciare il detto di cui fa uso Reyneri: “è come chiedere all’oste quanto è buono il vino del vicino”.


1.    Abbiamo selezionato, nel dibattito che è andato via via crescendo nei giorni successivi alla pubblicazione del nostro documento, solo alcune delle questioni che sono più vicine al nostro testo. Che il dibattito continui. Ma non vorremmo che si disperdesse semplicemente in nuove faticose ingegnerie a riguardo di regole concorsuali, di metodi per organizzare la sociologia italiana, di tecniche di misurazione standard e via dicendo. Noi abbiamo voluto sottolineare specifiche responsabilità. Riteniamo infatti che almeno una parte dei destini di un gruppo disciplinare dipenda da come si comportano i suoi membri, soldati semplici o leaders. Non ci sono alchimie regolamentari. Dovrebbe essere vietato, almeno fra sociologi che si ispirano all’individualismo metodologico, di buttarla sempre in politica, evadendo la questione delle responsabilità personali. Entro uno stesso sistema di regole può essere molto grande la variabilità dei comportamenti, dall’uso opportunistico ed egotista delle stesse regole al loro uso ragionevole e spassionato. Ma una deontologia comune o diffusa, aggiungiamo infine, non può formarsi senza una visione comune o diffusa dei valori ultimi cui occorre mirare. È per questo che in questo documento abbiamo almeno accennato, più che all’urgenza di nuove regole concorsuali, al compito di definire cosa sia una sociologia ben fatta.



Co-firmatari (in ordine alfabetico):

Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini, Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla, Giovanni Battista Sgritta




[1] Un solo esempio: Luigi Pellizzoni afferma con tranquilla sicurezza che nel nostro documento del 3 gennaio 2014 “… Si parla di nemici, cordate, epurazioni, regolamenti di conti”. Come chiunque può facilmente verificare, non una di queste parole è presente nel nostro documento. La vecchia pratica di gettare fango evidentemente non passa mai di moda.
[2] La dubbia affidabilità e la scarsa trasparenza del processo di valutazione sono peraltro confermate con una certa ingenuità dallo stesso Reyneri il quale, non rendendosi evidentemente conto del gravissimo illecito, svela che il GEV14 ha di fatto manipolato la valutazione accoppiando opportunamente i prodotti (e i loro autori) ai valutatori
[3] Anche la differenza fra atenei grandi e piccoli è molto meno netta nella VQR e un’università piccola e recente come il Piemonte Orientale ha il punteggio di gran lunga più elevato.
[4] Per esempio, questo processo avvia al definitivo tramonto anche un’importante tradizione della sociologia come pensiero critico sulla propria società, che più di comunicare in lingua inglese ha bisogno di diventare voce nel dibattito pubblico.
[5] Detto tra parentesi, perché si tratta di altro problema: non è che le responsabilità di certe derive del settore di Sociologia generale siano anche imputabili all’aureo isolamento e alla deresponsabilizzazione dei colleghi di SPS/09 (per esempio nelle politiche dell’AIS)?

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