In queste settimane abbiamo seguito con interesse, ma anche con
crescente stupore, il dibattito che si è sviluppato all’interno della
sociologia sui risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazione. Ci ha stupito,
in primo luogo, la percentuale di abilitati nei settori 14/C1 e 14/D1; in
secondo luogo, il clima che si è venuto a creare nella nostra comunità
accademica, che sembra sull’“orlo di una crisi di nervi”. Questo post non intende
proporre un’ulteriore analisi dei risultati della ASN. Il fine è piuttosto
quello di contribuire a spostare il fuoco del dibattito verso una riflessione
più pacata e propositiva, come anche altri – per fortuna - hanno iniziato a
fare (sia su questo sito sia su quello dell’Ais).
Sappiamo di trovarci in una posizione particolare, non essendo in
commissione né tra i candidati all’abilitazione dei settori in discussione. Questo,
naturalmente, non ci conferisce alcun punto di osservazione privilegiato, ma
solamente un pizzico di distacco emotivo in più, che ci induce a puntare il
dito non tanto verso il comportamento delle commissioni, quanto verso le norme
che regolano l’abilitazione.
Inizieremo facendo un passo indietro – discutendo tre punti che ci hanno
colpito nel dibattito sui risultati dell’ASN - per farne poi uno in avanti, in
direzione della normativa.
1) Il numero di abilitati nei
settori sociologici. Inutile girarci intorno, in entrambi i settori sociologici
di cui sono stati pubblicati i risultati, le percentuali di abilitati risultano
piuttosto contenute. In uno dei due (il 14/C1) sono molto basse. Basse rispetto
a cosa? Alla media di tutti gli
altri settori concorsuali, così come alla media delle altre aree delle scienze umane
e sociali (10-14) e alla quasi totalità dei settori a noi più vicini (politici,
economici ecc.). Assumendo come termine di riferimento le aree “non
bibliometriche”, per la prima fascia, il differenziale negativo dei nostri due
settori (valore medio) oscilla tra un minimo del 9% (area 11) e un massimo del 26%
(area 10). Va anche però aggiunto, che le “commissioni severe” non sono una
prerogativa esclusiva della sociologia e che in tutte le aree (bibliometriche e
non) si nota una forte variabilità interna nelle percentuali di abilitati. Per la
prima fascia il campo di variazione spazia dal 12% all’83%! Nei settori delle
scienze umane e sociali il range si restringe di poco: dal 12% al 69%.
Tutto ciò detto, che spiegazioni possiamo dare del comportamento delle
commissioni sociologiche? Nel dibattito ci pare emergano due interpretazioni
prevalenti. La prima attribuisce la variabilità dei risultati – con particolare
riferimento alla deludente prestazione del settore 14/C1 – alla “eterogeneità non
osservata”. Ovvero alla diversità (qualitativa) dei candidati presenti nei vari
settori concorsuali. Questa tesi, per i nostri due settori, è avvalorata dai
dati della VQR. Facciamo notare, per inciso, che sia l’ASN sia la VQR, in
quanto esercizi di peer review, in ultima analisi non sono indicatori di un
valore “oggettivo” della produzione scientifica, ma della relazione che c’è tra
le aspettative dei valutatori e la loro percezione di qualità. L’aspetto
interessante, qui, è che esiste una corrispondenza di qualche tipo tra i due
processi, cioè che il comportamento delle commissioni non risulta anomalo
rispetto al comportamento che l’intera comunità scientifica ha avuto verso se
stessa in sede di VQR.
La seconda interpretazione, al contrario, attribuisce la suddetta variabilità
quasi esclusivamente al diverso metro di giudizio usato dalle commissioni, e da
alcuni commissari in particolare. Anche questa tesi non appare infondata. Come
dicevamo sopra, sia guardando all’intera ASN, sia alle aree delle scienze umane
e sociali, salta agli occhi che alcune commissioni sono state molto “strette”
nel concedere le abilitazioni. Altre, invece, sono state molto più “generose”.
Dubitiamo che queste variazioni possano essere interamente attribuite alla diversa
qualità delle “popolazioni di riferimento”. Questo non dovrebbe stupirci. Sarebbe
ingenuo pensare che avere riferimenti normativi comuni (tra le commissioni) e
criteri comuni per la valutazione delle pubblicazioni e dei titoli (all’interno
delle commissioni) elimini del tutto una diversa interpretazione (e
applicazione) delle “regole del gioco”. In altre parole, che rimuova
completamente la soggettività dei giudizi.
A chi non è offuscato da pregiudizi (pro o contro le commissioni) non dovrebbe
dunque sfuggire che entrambe le interpretazioni avanzate nel dibattito sono del
tutto compatibili tra loro. Sono, anzi, complementari. Entrambe contribuiscono
a spiegare una parte della varianza registrata nei risultati dei vari settori. Ma
qui torniamo al punto di partenza. Come dicevamo, l’esito dell’ASN nei settori sociologici
è stato sorprendente. Soprattutto alla luce delle attese della vigilia, quando
si riteneva che l’assenza di un tetto alle abilitazioni potesse determinare
giochi collusivi (a somma positiva) tra i vari commissari, portando ad un’abilitazione
di massa. Perché non è andata così?
Non abbiamo ancora letto risposte convincenti nel dibattito in corso.
Né ne abbiamo noi da dare. L’idea che ci siamo fatti – in parte tautologica – è
che nelle commissioni sia prevalsa la convinzione che la sociologia italiana avesse
bisogno di rendere più rigorosi i propri criteri valutativi, anche al fine di
promuovere (nel tempo) un innalzamento della qualità dei propri percorsi formativi
e di carriera. Il monitoraggio reciproco - tra commissari e commissioni - ha
poi teso a far prevalere questo atteggiamento, seppure con variazioni anche
significative. Dire ciò, naturalmente, non implica affatto che non siano stati commessi
errori nelle valutazioni dei singoli candidati (in buona o in cattiva fede). Abbiamo
chiaramente presenti casi di colleghi che – con nostra sorpresa – non hanno
ottenuto l’abilitazione.
L’altra idea che – ci pare – sia circolata è quella che fosse opportuno
tenere un comportamento responsabile verso le “generazioni future”. Evitando gli
errori commessi in passato, quando il reclutamento ad ondate ha penalizzato non
poco chi veniva dopo: tutti quelli non nati (o non candidati) negli “anni
giusti”. A questo proposito meritano attenzione i dati riportati da Davide
Borrelli (sul sito Ais) sulle cessazioni di servizio, per raggiunti limiti di
età, previste nei prossimi anni. Considerando i pensionamenti programmati entro
il dicembre 2016 e il numero di abilitati nei settori sociologici, secondo i
calcoli fatti da Borrelli il tasso di sostituzione (dei pensionamenti) sarebbe pari
allo 0,81 nel settore 14/C1 e all’1,01 nel 14/D1. Tenendo conto che si tratta
della prima tornata abilitativa, questi dati non dovrebbero suscitare
preoccupazione. Anzi denotano un marcato senso di responsabilità da parte delle
commissioni. Borrelli tuttavia fa osservare che in altri settori il tasso di
sostituzione è decisamente superiore, arrivando fino ad un massimo di 26. In
altre parole – se il suo ragionamento è corretto – per ogni pensionamento previsto
da qui al 2016 ci sono 26 neo-abilitati pronti a rimpiazzarlo. Borrelli conclude
dicendo che questa vicenda evidenzia lo spirito di “auto-punizione” che
affligge la sociologia italiana, poiché le cifre sopra indicate sono destinate
a cambiare gli equilibri tra le varie discipline destinando la nostra comunità
accademica ad una “progressiva autoestinzione”.
Ma davvero questi dati suggeriscono queste conclusioni? Noi crediamo di
no. Per due motivi. Il primo è che a stabilire il reclutamento effettivo degli
abilitati saranno poi le chiamate e i concorsi locali. Non è perciò detto che
tutti gli abilitati vedranno soddisfatte le loro (pur legittime) aspettative. E
tuttavia è innegabile che i settori con molti abilitati eserciteranno una forte
pressione a livello locale. Il secondo motivo per cui l’argomentazione di
Borrelli non ci convince è che questi dati evidenziano, non tanto un difetto di
comportamento nelle nostre commissioni, ma un problema macroscopico della
normativa vigente. Proprio tenendo conto dei posti disponibili nei prossimi
anni (per pensionamento), chi si è comportato correttamente: le “severe” commissioni
sociologiche oppure le “generose” commissioni di altri settori? La risposta che
ci diamo è che una normativa che consente una variabilità così ampia nell’esito
delle abilitazioni (come quella registrata in questa prima tornata) e che rischia di premiare i
comportamenti opportunistici (da parte di eventuali “commissioni lassiste”) contiene
un vizio regolativo di fondo. Su questo torneremo più avanti.
2) “Nordisti” contro “sudisti”?
Tra le molte stravaganze che abbiamo sentito circolare in queste settimane, quella
che più ci ha colpito è la tesi (complottista) che i commissari del Nord
abbiano inteso colpire i candidati del Sud per affossare la sociologia nel
Mezzogiorno. Si tratta, secondo noi, di una sciocchezza che non meriterebbe
alcun commento. E tuttavia molti post che abbiamo letto si sono concentrati su
una presunta mancanza di “equità” nei confronti dei candidati del Sud. Sia
chiaro, non neghiamo che un problema esista, e che questa ASN l’abbia reso
palese. Ma non è un problema che possa essere imputato a come le commissioni
hanno agito. Che cosa avrebbero dovuto fare i commissari, usare criteri diversi
a seconda dell’area geografica di provenienza dei candidati? Applicarli in
maniera differenziata? Questo avrebbe significato svolgere un ruolo che non
compete ai commissari; assolvere cioè una funzione di supplenza nei confronti di
una seria politica della formazione e della ricerca che tenga conto anche delle
differenze (e degli eventuali handicap) derivanti dalla collocazione
territoriale delle Università. La loro decisione di tenere l’asticella particolarmente
alta ha tutt’al più contribuito a evidenziare l’esistenza di un divide geografico. Valutare le cause di questa
“divisione territoriale” nella sociologia italiana, i vincoli che probabilmente
intralciano al Sud la produttività anche degli studiosi più capaci, e quali
azioni debbano essere intraprese in futuro per superare questa anomalia: tutto
questo è una questione che merita una seria riflessione autocritica da parte di
tutta la nostra comunità accademica, senza artificiose contrapposizioni
territoriali. In particolar modo l’AIS ci sembra debba farsi carico di un
compito di questo tipo.
3) La mobilitazione del
risentimento. Due parole, infine, sul dibattito che si è sviluppato
sull’ASN. Ne vediamo un lato positivo e uno decisamente negativo. Il primo è
facilmente immaginabile: la pubblicazione online di tutti i giudizi dei
commissari e la disponibilità dei CV dei candidati agevolano la “trasparenza”
della valutazione. Il dibattito in corso, quindi, può aiutare a chiarire i parametri
e i criteri utilizzati dalle commissioni e consente di segnalare errori e anomalie,
presunte o reali. Bene quindi. E tuttavia c’è un lato anche meno positivo. Il
clima accesso delle recriminazioni, la messa in moto immediata della “macchina
dei ricorsi collettivi”, l’individuazione dei commissari buoni e di quelli
cattivi non ci convince affatto. Lo troviamo anzi inquietante. Ci chiediamo, ci
aiuta a fare passi avanti nel radicamento di una cultura “fair” della
valutazione? Al di là delle migliori intenzioni dei singoli, non stiamo creando
un clima da caccia alle streghe che avrà effetti peggiori del male che intende
curare? Non rischiamo di delegittimare l’intero meccanismo? Chi avrà, in
futuro, il “coraggio professionale e civile” (a meno di non avere corposi
interessi in gioco) di candidarsi nelle commissioni nazionali, sapendo che
dovrà esporsi ad un simile trattamento? Su questo punto ci sia consentita anche
una critica all’Ais. Possibile che il direttivo, nella sua nota (di cui pure apprezziamo
l’intenzione di fondo), non abbia speso neppure una parola di ringraziamento
per l’enorme mole di lavoro svolto dalle commissioni? Ciò nulla avrebbe tolto
alle critiche avanzate nei loro confronti.
Veniamo dunque alla parte conclusiva e più propositiva di questo post. Alla
luce della prima tornata di abilitazioni, ci sono alcune cose che continuano a convincerci
nella procedura avviata dalla L 240 e che rappresentano un passo avanti
rispetto al passato.
In primo luogo, l’esistenza di un livello nazionale di valutazione dei
candidati. Questo fa sì che i meccanismi di reclutamento e le progressioni di
carriera siano sottratte ad una logica angusta di localismo e fedeltà personale
nei confronti degli ordinari di riferimento. Questo livello nazionale va
ripensato, ma va anche difeso,
poiché insieme alla VQR ha messo in moto un parziale
processo di disaccoppiamento tra il controllo dei percorsi di carriera e le
posizioni di potere all’interno delle “tre componenti”, indebolendone i
meccanismi di riproduzione (o perlomeno rendendoli più complicati). Altri
aspetti che troviamo convincenti – e su cui non ci dilunghiamo – sono l’utilizzo
degli indicatori di impatto della produzione scientifica e l’enfasi posta sulla
internazionalizzazione (anche se le loro modalità di impiego andranno chiarite
e precisate meglio).
Ci sono invece altri aspetti della normativa che si sono dimostrati
inadeguati e che richiedono un correttivo. Ci limitiamo a segnalare alcuni
punti (alcuni già menzionati anche in altri contributi).
1) Troppi candidati per pochi
commissari. Da un lato questo porta a giudizi
frettolosi, dall’altro conferisce troppa importanza al caso (il meccanismo del
sorteggio). Gli inevitabili bias
individuali di sole cinque persone, infatti, finiscono per avere effetti
amplificati sull'intera comunità scientifica di riferimento. Moltiplicare le
commissioni, parametrandole sul numero dei candidati e assicurando che tutti i
SSD siano rappresentati, ridurrebbe entrambi questi problemi. Lo stesso farebbe
la separazione delle commissioni per l’abilitazione di prima e seconda fascia.
2) Troppa variabilità nei
comportamenti delle commissioni. Questo – a nostro avviso – è il punto più
delicato. Senza la previsione di qualche tetto al numero delle abilitazioni, i
settori concorsuali che sposano una politica della “manica larga” possono
inondare le università di abilitati, creando una pressione verso il
reclutamento che mette in difficoltà i settori con un comportamento valutativo
più rigoroso. Perché dunque non ancorare le abilitazioni ai pensionamenti
previsti e al piano
triennale per la programmazione e il reclutamento del personale imposto agli
atenei dalla L. 240/2010? La presenza di un tetto esterno annullerebbe la
discrezionalità delle varie commissioni su questo aspetto strategico. Ci rendiamo
conto che ciò significherebbe “contaminare” il giudizio di abilitazione con una
logica diversa, basata su una valutazione comparativa. Ma quali sono le
contro-indicazioni nel farlo? Ne uscirebbe semplificata anche la procedura di
secondo livello, quella della chiamata locale dei professori, che dovrebbe
rimanere ancorata ad una valutazione comparativa di candidati, finalizzata a garantire
il matching tra le richieste dei vari
atenei e le competenze dei vari candidati.
3) Tornare ad una “maggioranza semplice”.
Qualora fosse posto un tetto alle abilitazioni, il vincolo per le commissioni
di prendere le decisioni a maggioranza qualificata (4 voti favorevoli su 5) diverrebbe
superfluo. La sua ratio, infatti, era
volta ad ostacolare una “deriva alluvionale” delle abilitazioni, richiedendo ai
commissari una quasi unanimità di giudizio sugli idonei.
Un ultimo punto su cui la nota del direttivo Ais ci
invita a riflettere sono i meccanismi di formazione delle commissioni. Noi
siamo per mantenere inalterati quelli in vigore. Vi scorgiamo due vantaggi. Il
primo è che assicurano una qualificazione scientifica dei commissari almeno
paragonabile a quella richiesta ai candidati per l’abilitazione di prima
fascia. Il secondo vantaggio è che il meccanismo del sorteggio orienta le
aspettative dei candidati verso lo “scenario peggiore” (il migliore per la
comunità accademica nel suo complesso): una commissione composta da docenti
qualificati, non conosciuti personalmente. Ciò li dovrebbe spronare a qualificare
il proprio curriculum, anziché a coltivare le relazioni personali e di
componente. Ci lascia invece perplessi – perché non ne capiamo appieno il
significato – la proposta del direttivo Ais di “individuare nuovi
meccanismi per la formazione delle commissioni, attribuendo alle comunità
disciplinari la possibilità di definire l’universo dei commissari
sorteggiabili, tra quanti superano il filtro delle mediane”. Temiamo infatti
che ciò apra un varco pericoloso nella procedura, che può riconsegnare la formazione delle commissioni
al controllo delle componenti e alle logiche spartitorie del passato.
Dobbiamo lavorare perché si crei
una nuova solidarietà nella nostra comunità, basata sulla stabilizzazione dei
criteri di merito, sulla costruzione di una nuova fiducia reciproca,
sull’affermarsi di una “classe dirigente” e di organi di rappresentanza
qualificati per promuovere l’interesse collettivo.
Noi crediamo che continuare ad
ampliare la frattura tra il risentimento dei non abilitati (e dei loro
“referenti” di prima fascia) e l’irritazione di coloro che vogliono elevare gli
standard della sociologia in Italia non faccia del bene al futuro della nostra
disciplina. Chiediamo quindi lo sforzo di tutti per spostare il dibattito dal
piano della “colpa” (accusa/difesa) a quello della progettualità, dove vi
possono naturalmente essere posizioni diverse (e quindi, appunto, un
dibattito), ma dove valori e interessi collettivi possano meglio depurarsi
dalle dinamiche degli interessi individuali. E’ necessario creare fattivamente
situazioni di incontro, in gruppi di discussione eterogenei, per uscire dal
vortice creato, non da ultimo, dal linguaggio di Internet, così versato alla
semplificazione e alla radicalizzazione dei concetti. A questo riguardo approviamo
l’intenzione, annunciata dal direttivo AIS, di promuovere gruppi di lavoro e di
confronto sul tema della valutazione.
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