domenica 11 dicembre 2011

Le ragioni di una perplessità


Car* collegh*,

Vi scriviamo per rendere visibili le ragioni di una perplessità di fondo rispetto al blog e all’incontro a Bologna che ci ha spinto a non prendere parola nei dibattiti finora portati avanti. Ci viene ricordato che “Il posto più caldo dell'inferno è riservato per quelli che nei momenti di crisi morale preservarono la propria neutralità”. Il nostro laicismo dovrebbe proteggerci a sufficienza da questa visione, ma vogliamo per lo meno dotarci di una neutralità critica.
Prendendo spunto e allargando la prospettiva indicata dalla parte finale di una lettera pubblicata sul blog da una collega (“Tutti insieme abbiamo dimenticato che la nostra università negli ultimi anni è stata ferita a morte e che il paese sta affondando nei debiti, nel malaffare, nel disprezzo da parte degli altri paesi. Forse nello stesso momento in cui scrivo si sta dichiarando ufficialmente il default dell’Italia. Crediamo davvero che sia possibile far qualcosa “Per la sociologia” se il paese rimane immutato?”), vorremmo indicare alcuni punti che ci sembrano preliminari a qualsiasi confronto su regole future, meccanismi di valutazione, assetti organizzativi o associazioni professionali.


E’ singolare che buona parte del dibattito sul sito Treccani, continuato in parte sul blog e attraverso alcuni tristi scambi di mail, abbia omesso un inquadramento storico e politico, comparativo e critico, sulle condizioni attuali della sociologia internazionale e nazionale. Buona parte delle convulsioni che interessano la nostra “comunità” si osservano infatti anche in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, o Australia e hanno a che fare con la fase di ristrutturazione globale nei finanziamenti alle discipline umanistiche e sociali.

La declinazione italiana di quest’ondata recessiva è ben illustrata dalla cosiddetta “Legge Gelmini”, entrata in vigore meno di un anno fa e che pare suscitare minor fastidio di quello esercitato dalle cosiddette “componenti”. Il ruolo attribuito da questa legge a fondazioni bancarie e attori privati, come risaputo, è aumentato e in molti casi non fa che legittimare la pratica già diffusa consistente nel subappaltare a questo tipo di soggetti i finanziamenti alla ricerca degli atenei nei quali lavoriamo. Mentre accade ciò, in parallelo - e i nuovi statuti varati recentemente da molti atenei italiani ne sono un esempio- si va affermando un progetto di “razionalizzazione” della vita universitaria, alimentato da una forte spinta verticistica e  anti-democratica. Entro questa cornice, ad esempio, la riorganizzazione delle carriere dei ricercatori all'ingresso (il modello della tenure-track) pone dubbi più che offrire soluzioni. A quali interessi risponde la flessibilizzazione del lavoro docente? Quali logiche regoleranno i finanziamenti e i rinnovi dei contratti, in presenza di risorse scarse? Quali direzioni di ricerca verranno promosse? Tutti interrogativi che dovrebbero quantomeno suggerire una lettura meno acritica da parte della classe docente strutturata e "garantita". 

In un contesto in cui i tagli al fondo di finanziamento ordinario degli atenei diventano strutturali, dove diminuiscono i fondi per i programmi di ricerca di interesse nazionale e il supporto europeo non può supplire a queste mancanze né tantomeno i governi tecnici sembrano interessati a rimettere in questione gli strapoteri dei CdA o i legami con gli interessi privati, ci troviamo a lavorare in strutture burocratiche che moltiplicano le richieste di prodotti da valutare secondo criteri che cambiano di mese in mese e, per di più, avendo ceduto autonomia politica e scientifica in cambio di promesse di sostegno. Intendiamoci, non siamo contro i meccanismi di valutazione in sé, ma nutriamo il forte sospetto che si tratti di una foglia di fico sistemica. Hai un indice h inferiore alla media di quello del tuo raggruppamento? Niente finanziamenti! Superiore alla media? Complimenti, ma purtroppo “c’è la crisi”…

D’altra parte, nell'incontro di Bologna ci si è largamente riferiti alle procedure di valutazione, alle componenti, ai concorsi. Appare però un certo scollamento tra retoriche su meritocrazia e buone pratiche, diffuse quando si parla in generale della sociologia accademica italiana, e comportamenti concreti e le scelte (o non-scelte) che è possibile osservare nei dipartimenti in cui lavoriamo. Un atteggiamento critico andrebbe adottato anche in quei processi decisionali che caratterizzano il funzionamento dei dipartimenti e di altre strutture universitarie, ispirati da logiche particolaristiche e di fazione che si verificano a livello locale: dai corsi di laurea ai dottorati, dagli assegni di ricerca alla distribuzione di responsabilità e carichi di lavoro (anche di tipo burocratico e organizzativo). In questo caso il problema non è quello delle componenti, ma deriva spesso dalla presenza di alleanze e coalizione di potere che di fatto prendono le decisioni più rilevanti. Questo incide pesantemente - prima ancora dell'avvio formale dei concorsi  - nei processi di reclutamento e nelle progressioni di carriera.
Per non parlare della questione della precarizzazione del lavoro di ricerca che, nella nostra come in altre discipline, subirà le dinamiche ricattatorie delle nuove forme di finanziamento e gestione della spartizione delle risorse all’interno degli Atenei, tendente a  favorire inevitabilmente ricerche a breve raggio e per certi aspetti comode o “notiziabili”. E soprattutto limita un vero ricambio generazionale prevedendo l’ingresso di nuove leve a scadenza, sotto il vessillo di una tenure-track di fatto non finanziata.

Quanto alla qualità dei lavori, pensiamo che migliorarla sia un imperativo e lo perseguiamo quotidianamente nei nostri dipartimenti. Quello che sta diventando intollerabile è l’imporsi di una spirale di inflazione di “prodotti della ricerca” che non ha alcun legame con il miglioramento delle nostre opere. Produrre di più è produrre meglio? Vi è poi un quesito, fastidioso e pressante, che sembra purtuttavia non avere molta voce pubblica: chi legge le nostre ricerche? Perché lo fa? Il biasimo diffuso, e condivisibile, contro filosofie sociali liquide e prive di sostanza sociologica, non è sufficiente a colmare il vuoto tra il pubblico che le legge con avidità e l’atteggiamento snobistico di una comunità professionale che si ritiene slegata dai processi sociali che è deputata ad interpretare. Il fastidio con cui sono stati liquidati negli anni i pubblici extra-accademici, i movimenti sociali, le moltitudini di cittadini e cittadine che all’estero sorreggono una pubblicistica sociologica anche di livello, non può non avere come effetto di lungo termine l’autoreferenzialità.  La questione che dovremmo porci, come intellettuali prima ancora che come sociologi, è circa la sostenibilità di questo modello di specializzazione e professionalizzazione.

Le molte ingenuità delle domande che poniamo, a noi stessi prima ancora che a tutti voi, sono anche espressione di una spaccatura generazionale che è diffusa nel paese quanto lo è tra i sociologi. Non si tratta della frattura prodotta dai pensionamenti degli ultimi anni e dalle scosse telluriche che hanno prodotto sulle generazioni che dovevano subentrare nelle posizioni lasciate vuote, ma, viceversa, di una faglia culturale tra chi vorrebbe poter lavorare in ambienti dinamici, aperti e qualificati e chi, stando ai dibattiti fino a qui osservati, ritiene che modificando la struttura spartitoria della sociologia italiana ne avrà anche curato i mali. Ci viene detto che del “programma culturale” si parlerà successivamente, che basta aspettare, che prima occorre definire il campo organizzativo, le regole, le procedure, i meccanismi. Tuttavia è del primo che invece ci sembra urgente e prioritario discutere. Se davvero la sociologia pubblica deve poter dialogare e alimentare quella professionale, allora è dal contatto critico con la società civile che bisogna partire. Il rischio, altrimenti, è di ridurre il problema a una mera questione di ricambio generazionale ai vertici di una struttura autoreferenziale di potere e che, di per sé, resterebbe immutata.


Rossella Ghigi, Università di Bologna
Giovanni Semi, Università di Torino
Dario Tuorto, Università di Bologna
Marianna D’Ovidio, Politecnico di Milano
Anna Carola Freschi, Università di Bergamo
Andrea Mubi Brighenti, Università di Trento
Rocco Sciarrone, Università di Torino
Raffaella Ferrero Camoletto, Università di Torino
Antonella Meo, Università di Torino
Laura Sartori, Università di Bologna
Vittorio Mete, Università di Catanzaro
Emanuela Abbatecola, Università di Genova
Luca Storti, Università di Torino
Nicoletta Bosco, Università di Torino
Fabio Quassoli, Università di Milano Bicocca
Aide Esu, Università di Cagliari.
Tiziana Caponio, Università di Torino
Francesca Decimo, Università di Trento
Giuseppe Lucà Trombetta, Università di Bologna
Caterina Satta, Università di Padova

2 commenti:

  1. Che queste fossero le ragioni del silenzio e della scarsa partecipazione dei colleghi firmatari della lettera mi era, in gran parte, noto. Nella lettera compaiono, a mio giudizio, alcuni elementi di verità, accompagnati però da aspetti caricaturali. È vero, innanzitutto, che anche se non ci fosse stata la “Legge Gelmini”, noi ci saremmo mobilitati comunque. La convinzione è che se non riusciamo a funzionare bene al nostro interno, è velleitario scagliarsi contro le varie Gelmini, sbraitare contro la bulimia della valutazione e inveire contro i “privati” nella governance delle Università.
    Sono ora più consapevole che lo sforzo richiesto per mobilitarsi, organizzare, prendere pubblicamente posizione contro i “Signori delle tessere” non è, per alcuni, sufficiente se non si accompagna anche alla difesa dell’Università pubblica e alla critica dei finanziamenti privati alla ricerca. Per me, invece, le due operazioni sono distinte. Il mal funzionamento della comunità sociologica italiana non ha dovuto attendere né la Gelmini, né “la fase di ristrutturazione globale nei finanziamenti alle discipline umanistiche e sociali”. Tutto è di alcune decine di anni precedente. Le comunità nazionali hanno tutte i loro problemi, ma in nessun caso si può sostenere che i sociologi americani, francesi, australiani soffrono delle nostre stesse convulsioni.
    Un altro elemento di verità attiene alla diagnosi del mal funzionamento: la nostra comunità è fatta di scelte strutturate da alleanze che prescindono dalle componenti, specie a livello locale. Se queste alleanze configurano, come le componenti, gli effetti di cui molto abbiamo discusso, allora il Blog è un luogo dove affrontare la questione.
    Infine, un elemento a mio giudizio fuorviante. Non è vero che i promotori del Blog ritengono che modificando la struttura spartitoria della sociologia italiana se ne cureranno i mali. Quale struttura spartitoria alternativa è stata proposta, infatti? Nessuna. Perché il tema non è questo.
    Per chiudere, credo che converrebbe riflettere su un punto. Alla nostra comunità sociologica non sono mancati il dialogo con i movimenti, la critica all’introduzione dei capitali privati nell’Università o la coscienza dello statuto pubblico del sociologo. Il problema è che tutto ciò non si è sviluppato insieme alla dimensione professionale della nostra disciplina.

    Filippo Barbera
    Università di Torino

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  2. Car*,

    sono felice di vedere che alcune perplessità vengano alla luce e inducano al confronto con questo Blog e il relativo progetto, e voglio interpretare questo post come un’occasione di miglioramento dell’iniziativa e di coinvolgimento finalmente fattivo. A Bologna e nel blog non sono mancati i riferimenti al quadro generale, e anche alla vita spesso ingessata (e quant’altro) dei dipartimenti, e ancora alla precarizzazione e ai suoi effetti perversi. Ritengo che soprattutto questi ultimi due temi richiedano davvero molta attenzione, e nel gruppo “buone pratiche”, che si è da poco costituito, pensavamo di affrontarle direttamente in modo puntuale: p.es. cosa può essere una buona pratica nella vita quotidiana di tutti noi se non lasciare spazio (nei collegi di dottorato, nelle commissioni, nelle varie cariche, nei convegni, negli organi direttivi) a chi effettivamente vuole lavorare e ne ha le capacità e le competenze relativamente indipendenti dalle gerarchie accademico-burocratiche? Alcuni dei firmatari di questo post in effetti sono già promotori del blog e sono peraltro intervenuti su questi e altri temi. Lasciando perdere il senso di straniamento che questa circostanza mi ha procurato, invito davvero loro e anche gli altri firmatari di questo post a chiedersi se e come vogliono partecipare fattivamente. “Per la sociologia” sta prendendo forma, e la forma che prenderà dipende da chi vi partecipa. A meno che non si voglia dare origine ad altre iniziative parallele o stare "perplessi sul fondo", credo che sia opportuno che chi ha voglia e idee contribuisca a rendere questa iniziativa più vicina a ciò che sente importante. Non capita spesso di essere in una fase di statu nascenti dove ciò è possibile, e questo è a mio avviso un momento prezioso. I gruppi di lavoro che stanno formandosi in modo informale tra gli aderenti al progetto sono un work in progress il cui obiettivo è rendere massima la sinergia tra le persone e la rappresentanza delle questioni. Come indicato dal gruppo “buone pratiche” che per primo si è costituito: “sarà benvenuto il contributo sia di chi vorrà inviare indicazioni su buone pratiche ed esperienze di cui è a conoscenza sia di chi vorrà collaborare più attivamente”. Insomma, le strade sono aperte: si può partecipare collaborando e dando una mano al gruppo "buone pratiche" anche diventandone membro, o si può partecipare ad altri costituendi gruppi. O ancora, certamente, si può proporre la costituzione di un nuovo gruppo di lavoro che permetta anche a chi tra i firmatari di questo post non ha sinora aderito di aderire e assumersi responsabilità concrete e produttive, lavorando per rendere le proprie perplessità non una presa di distanza che rischia di lasciare il tempo che trova, ma una specificità, anche profonda, che arricchisca gli altri e contribuisce al lavoro che si può fare insieme, definendo i contorni di questo ‘insieme’ e di questo ‘lavoro’.

    Roberta Sassatelli, Università di Milano

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