Car* collegh*,
Vi scriviamo per rendere visibili le
ragioni di una perplessità di fondo rispetto al blog e all’incontro a Bologna
che ci ha spinto a non prendere parola nei dibattiti finora portati avanti. Ci
viene ricordato che “Il posto più caldo dell'inferno è riservato per quelli che
nei momenti di crisi morale preservarono la propria neutralità”. Il nostro
laicismo dovrebbe proteggerci a sufficienza da questa visione, ma vogliamo per
lo meno dotarci di una neutralità critica.
Prendendo spunto e allargando la prospettiva
indicata dalla parte finale di una lettera pubblicata sul blog da una collega
(“Tutti insieme abbiamo dimenticato che la nostra università negli ultimi anni
è stata ferita a morte e che il paese sta affondando nei debiti, nel malaffare,
nel disprezzo da parte degli altri paesi. Forse nello stesso momento in cui
scrivo si sta dichiarando ufficialmente il default dell’Italia. Crediamo
davvero che sia possibile far qualcosa “Per la sociologia” se il paese rimane
immutato?”), vorremmo indicare alcuni punti che ci sembrano preliminari a
qualsiasi confronto su regole future, meccanismi di valutazione, assetti
organizzativi o associazioni professionali.
E’ singolare che buona parte del
dibattito sul sito Treccani, continuato in parte sul blog e attraverso alcuni
tristi scambi di mail, abbia omesso un inquadramento storico e politico,
comparativo e critico, sulle condizioni attuali della sociologia internazionale
e nazionale. Buona parte delle convulsioni che interessano la nostra “comunità”
si osservano infatti anche in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, o Australia
e hanno a che fare con la fase di ristrutturazione globale nei finanziamenti
alle discipline umanistiche e sociali.
La declinazione italiana
di quest’ondata recessiva è ben illustrata dalla cosiddetta “Legge Gelmini”,
entrata in vigore meno di un anno fa e che pare suscitare minor fastidio di
quello esercitato dalle cosiddette “componenti”. Il ruolo attribuito da questa
legge a fondazioni bancarie e attori privati, come risaputo, è aumentato e in
molti casi non fa che legittimare la pratica già diffusa consistente nel
subappaltare a questo tipo di soggetti i finanziamenti alla ricerca degli
atenei nei quali lavoriamo. Mentre accade ciò, in parallelo - e i nuovi statuti
varati recentemente da molti atenei italiani ne sono un esempio- si va
affermando un progetto di “razionalizzazione” della vita universitaria,
alimentato da una forte spinta verticistica e anti-democratica. Entro questa cornice, ad esempio, la
riorganizzazione delle carriere dei ricercatori all'ingresso (il modello della tenure-track) pone dubbi più che offrire
soluzioni. A quali interessi risponde la flessibilizzazione del lavoro docente?
Quali logiche regoleranno i finanziamenti e i rinnovi dei contratti, in
presenza di risorse scarse? Quali direzioni di ricerca verranno promosse? Tutti
interrogativi che dovrebbero quantomeno suggerire una lettura meno acritica da
parte della classe docente strutturata e "garantita".
In un contesto in cui i
tagli al fondo di finanziamento ordinario degli atenei diventano strutturali,
dove diminuiscono i fondi per i programmi di ricerca di interesse nazionale e
il supporto europeo non può supplire a queste mancanze né tantomeno i governi
tecnici sembrano interessati a rimettere in questione gli strapoteri dei CdA o i
legami con gli interessi privati, ci troviamo a lavorare in strutture
burocratiche che moltiplicano le richieste di prodotti da valutare secondo
criteri che cambiano di mese in mese e, per di più, avendo ceduto autonomia
politica e scientifica in cambio di promesse di sostegno. Intendiamoci, non
siamo contro i meccanismi di valutazione in sé, ma nutriamo il forte sospetto
che si tratti di una foglia di fico sistemica. Hai un indice h inferiore alla
media di quello del tuo raggruppamento? Niente finanziamenti! Superiore alla
media? Complimenti, ma purtroppo “c’è la crisi”…
D’altra parte, nell'incontro
di Bologna ci si è largamente riferiti alle procedure di valutazione, alle
componenti, ai concorsi. Appare però un certo scollamento tra retoriche su
meritocrazia e buone pratiche, diffuse quando si parla in generale della sociologia
accademica italiana, e comportamenti concreti e le scelte (o non-scelte) che è
possibile osservare nei dipartimenti in cui lavoriamo. Un atteggiamento critico
andrebbe adottato anche in quei processi decisionali che caratterizzano il
funzionamento dei dipartimenti e di altre strutture universitarie, ispirati da logiche
particolaristiche e di fazione che si verificano a livello locale: dai corsi di
laurea ai dottorati, dagli assegni di ricerca alla distribuzione di
responsabilità e carichi di lavoro (anche di tipo burocratico e organizzativo).
In questo caso il problema non è quello delle componenti, ma deriva spesso
dalla presenza di alleanze e coalizione di potere che di fatto prendono le
decisioni più rilevanti. Questo
incide pesantemente - prima ancora dell'avvio formale dei concorsi - nei processi di reclutamento e nelle
progressioni di carriera.
Per non parlare della
questione della precarizzazione del lavoro di ricerca che, nella nostra come in
altre discipline, subirà le dinamiche ricattatorie delle nuove forme di
finanziamento e gestione della spartizione delle risorse all’interno degli
Atenei, tendente a favorire
inevitabilmente ricerche a breve raggio e per certi aspetti comode o
“notiziabili”. E soprattutto limita un vero ricambio generazionale prevedendo
l’ingresso di nuove leve a scadenza, sotto il vessillo di una tenure-track di fatto non finanziata.
Quanto alla qualità dei lavori, pensiamo
che migliorarla sia un imperativo e lo perseguiamo quotidianamente nei nostri
dipartimenti. Quello che sta diventando intollerabile è l’imporsi di una spirale
di inflazione di “prodotti della ricerca” che non ha alcun legame con il
miglioramento delle nostre opere. Produrre di più è produrre meglio? Vi è poi
un quesito, fastidioso e pressante, che sembra purtuttavia non avere molta voce
pubblica: chi legge le nostre ricerche? Perché lo fa? Il biasimo diffuso, e condivisibile,
contro filosofie sociali liquide e prive di sostanza sociologica, non è
sufficiente a colmare il vuoto tra il pubblico che le legge con avidità e
l’atteggiamento snobistico di una comunità professionale che si ritiene slegata
dai processi sociali che è deputata ad interpretare. Il fastidio con cui sono
stati liquidati negli anni i pubblici extra-accademici, i movimenti sociali, le
moltitudini di cittadini e cittadine che all’estero sorreggono una
pubblicistica sociologica anche di livello, non può non avere come effetto di
lungo termine l’autoreferenzialità.
La questione che dovremmo porci, come intellettuali prima ancora che
come sociologi, è circa la sostenibilità di questo modello di specializzazione
e professionalizzazione.
Le molte ingenuità delle domande che
poniamo, a noi stessi prima ancora che a tutti voi, sono anche espressione di
una spaccatura generazionale che è diffusa nel paese quanto lo è tra i
sociologi. Non si tratta della frattura prodotta dai pensionamenti degli ultimi
anni e dalle scosse telluriche che hanno prodotto sulle generazioni che
dovevano subentrare nelle posizioni lasciate vuote, ma, viceversa, di una
faglia culturale tra chi vorrebbe poter lavorare in ambienti dinamici, aperti e
qualificati e chi, stando ai dibattiti fino a qui osservati, ritiene che
modificando la struttura spartitoria della sociologia italiana ne avrà anche
curato i mali. Ci viene detto che del “programma
culturale” si parlerà successivamente, che basta aspettare, che prima occorre
definire il campo organizzativo, le regole, le procedure, i meccanismi.
Tuttavia è del primo che invece ci sembra urgente e prioritario discutere. Se
davvero la sociologia pubblica deve poter dialogare e alimentare quella
professionale, allora è dal contatto critico con la società civile che bisogna
partire. Il rischio, altrimenti, è di ridurre il problema a una mera questione
di ricambio generazionale ai vertici di una struttura autoreferenziale di
potere e che, di per sé, resterebbe immutata.
Rossella
Ghigi, Università di Bologna
Giovanni Semi, Università di Torino
Dario Tuorto, Università di Bologna
Marianna D’Ovidio, Politecnico di Milano
Anna Carola Freschi, Università di
Bergamo
Andrea Mubi Brighenti, Università di
Trento
Rocco Sciarrone, Università di Torino
Raffaella Ferrero Camoletto, Università
di Torino
Antonella Meo, Università di Torino
Laura Sartori, Università di Bologna
Vittorio Mete, Università di Catanzaro
Emanuela Abbatecola, Università di Genova
Luca Storti, Università di Torino
Nicoletta Bosco, Università di Torino
Fabio Quassoli, Università di Milano
Bicocca
Aide Esu, Università di Cagliari.
Tiziana Caponio, Università di Torino
Francesca Decimo, Università di Trento
Giuseppe Lucà Trombetta, Università di
Bologna
Che queste fossero le ragioni del silenzio e della scarsa partecipazione dei colleghi firmatari della lettera mi era, in gran parte, noto. Nella lettera compaiono, a mio giudizio, alcuni elementi di verità, accompagnati però da aspetti caricaturali. È vero, innanzitutto, che anche se non ci fosse stata la “Legge Gelmini”, noi ci saremmo mobilitati comunque. La convinzione è che se non riusciamo a funzionare bene al nostro interno, è velleitario scagliarsi contro le varie Gelmini, sbraitare contro la bulimia della valutazione e inveire contro i “privati” nella governance delle Università.
RispondiEliminaSono ora più consapevole che lo sforzo richiesto per mobilitarsi, organizzare, prendere pubblicamente posizione contro i “Signori delle tessere” non è, per alcuni, sufficiente se non si accompagna anche alla difesa dell’Università pubblica e alla critica dei finanziamenti privati alla ricerca. Per me, invece, le due operazioni sono distinte. Il mal funzionamento della comunità sociologica italiana non ha dovuto attendere né la Gelmini, né “la fase di ristrutturazione globale nei finanziamenti alle discipline umanistiche e sociali”. Tutto è di alcune decine di anni precedente. Le comunità nazionali hanno tutte i loro problemi, ma in nessun caso si può sostenere che i sociologi americani, francesi, australiani soffrono delle nostre stesse convulsioni.
Un altro elemento di verità attiene alla diagnosi del mal funzionamento: la nostra comunità è fatta di scelte strutturate da alleanze che prescindono dalle componenti, specie a livello locale. Se queste alleanze configurano, come le componenti, gli effetti di cui molto abbiamo discusso, allora il Blog è un luogo dove affrontare la questione.
Infine, un elemento a mio giudizio fuorviante. Non è vero che i promotori del Blog ritengono che modificando la struttura spartitoria della sociologia italiana se ne cureranno i mali. Quale struttura spartitoria alternativa è stata proposta, infatti? Nessuna. Perché il tema non è questo.
Per chiudere, credo che converrebbe riflettere su un punto. Alla nostra comunità sociologica non sono mancati il dialogo con i movimenti, la critica all’introduzione dei capitali privati nell’Università o la coscienza dello statuto pubblico del sociologo. Il problema è che tutto ciò non si è sviluppato insieme alla dimensione professionale della nostra disciplina.
Filippo Barbera
Università di Torino
Car*,
RispondiEliminasono felice di vedere che alcune perplessità vengano alla luce e inducano al confronto con questo Blog e il relativo progetto, e voglio interpretare questo post come un’occasione di miglioramento dell’iniziativa e di coinvolgimento finalmente fattivo. A Bologna e nel blog non sono mancati i riferimenti al quadro generale, e anche alla vita spesso ingessata (e quant’altro) dei dipartimenti, e ancora alla precarizzazione e ai suoi effetti perversi. Ritengo che soprattutto questi ultimi due temi richiedano davvero molta attenzione, e nel gruppo “buone pratiche”, che si è da poco costituito, pensavamo di affrontarle direttamente in modo puntuale: p.es. cosa può essere una buona pratica nella vita quotidiana di tutti noi se non lasciare spazio (nei collegi di dottorato, nelle commissioni, nelle varie cariche, nei convegni, negli organi direttivi) a chi effettivamente vuole lavorare e ne ha le capacità e le competenze relativamente indipendenti dalle gerarchie accademico-burocratiche? Alcuni dei firmatari di questo post in effetti sono già promotori del blog e sono peraltro intervenuti su questi e altri temi. Lasciando perdere il senso di straniamento che questa circostanza mi ha procurato, invito davvero loro e anche gli altri firmatari di questo post a chiedersi se e come vogliono partecipare fattivamente. “Per la sociologia” sta prendendo forma, e la forma che prenderà dipende da chi vi partecipa. A meno che non si voglia dare origine ad altre iniziative parallele o stare "perplessi sul fondo", credo che sia opportuno che chi ha voglia e idee contribuisca a rendere questa iniziativa più vicina a ciò che sente importante. Non capita spesso di essere in una fase di statu nascenti dove ciò è possibile, e questo è a mio avviso un momento prezioso. I gruppi di lavoro che stanno formandosi in modo informale tra gli aderenti al progetto sono un work in progress il cui obiettivo è rendere massima la sinergia tra le persone e la rappresentanza delle questioni. Come indicato dal gruppo “buone pratiche” che per primo si è costituito: “sarà benvenuto il contributo sia di chi vorrà inviare indicazioni su buone pratiche ed esperienze di cui è a conoscenza sia di chi vorrà collaborare più attivamente”. Insomma, le strade sono aperte: si può partecipare collaborando e dando una mano al gruppo "buone pratiche" anche diventandone membro, o si può partecipare ad altri costituendi gruppi. O ancora, certamente, si può proporre la costituzione di un nuovo gruppo di lavoro che permetta anche a chi tra i firmatari di questo post non ha sinora aderito di aderire e assumersi responsabilità concrete e produttive, lavorando per rendere le proprie perplessità non una presa di distanza che rischia di lasciare il tempo che trova, ma una specificità, anche profonda, che arricchisca gli altri e contribuisce al lavoro che si può fare insieme, definendo i contorni di questo ‘insieme’ e di questo ‘lavoro’.
Roberta Sassatelli, Università di Milano