E’ possibile che un gruppo di
persone critichi la debole qualità e la scarsa istituzionalizzazione della
sociologia italiana, senza avere una visione condivisa di cosa sia la qualità
scientifica?
Probabilmente si, finché il
discorso resta solo sul piano della critica all’esistente. Se però si cercasse di
passare a qualche forma di azione collettiva, la mancata condivisione di criteri
di qualità espliciti diventerebbe un problema. Provo a spiegarmi: supponiamo
che si cominci davvero a monitorare informalmente l’andamento dei prossimi
concorsi, con l’obiettivo di innescare un meccanismo di controllo
reputazionale. Bene, al prossimo concorso ci sono tre candidati:
- Tizio ha un pubblicato un
articolo sulla rivista italiana alfa, due articoli sulla rivista italiana beta
e una monografia per una casa editrice nazionale (es. Franco Angeli).
- Caio ha solo una monografia per
una sconosciuta casa editrice di Viterbo.
- Sempronio ha una monografia per
Routledge, un articolo per la rivista italiana alfa e un articolo per la
rivista internazionale gamma.
Tutti e tre i candidati hanno un
profilo ben corrispondente allo specifico concorso aperto. Vince Caio che,
guarda caso, è il candidato interno.
Nel blog si discute sugli esiti
di questo (puramente ipotetico) concorso e qualcuno afferma che Sempronio era
invece il migliore candidato.
Tuttavia qualcun altro osserva
che Tizio può vantare un articolo in più.
Qualcun altro ancora nota, però,
che non si può misurare la qualità scientifica “a peso” e che Caio, pur avendo
solo una monografia per una casa editrice sconosciuta, ha scritto un saggio di
eccezionale valore.
Qualcun altro ribatte che la
monografia di Sempronio è altrettanto valida e si comincia a discettare sui rispettivi
meriti epistemologici di questi due saggi, sulla loro “originalità”, ecc.
Avete inteso dove voglio arrivare:
se i criteri di qualità restano vaghi e non sono precisati ex ante, si finirà
sempre a discutere su quali debbano essere quelli da adottare e, soprattutto,
sarà sempre possibile trovare ex post qualche criterio generico che permette di
giustificare la vittoria del candidato che si vuole far vincere. I favoritismi particolaristici
proliferano indisturbati anche grazie alla genericità dei criteri valutativi.
L’ambiguità delle regole del gioco permette di legittimare scelte di bassa
qualità, rivestendole di una patina di plausibilità scientifica. Certo, in alcuni casi i verdetti
delle commissioni sono così faziosi che è evidente che la competizione non era
equa. Però molto più spesso le differenze di qualità tra candidati non sono
così palesi e indubitabili, quindi i criteri prescelti diventano decisivi.
Il problema è che questi criteri
di qualità sono tanto indispensabili quanto spinosi da definire. Se però
neghiamo in linea di principio la possibilità di definirli in modo sensato e
non meramente arbitrario, allora mi pare che ogni critica ai concorsi o alla qualità
della disciplina in Italia si svuoti di significato: infatti non ci sarebbe nessuna
base condivisibile per criticare. Si deve, però, evitare anche il pericolo
opposto, cioè credere che possano esistere criteri neutrali e “tecnici”, validi
in assoluto, sarebbe troppo ingenuo.
Un ragionamento sui criteri di
qualità per valutare la ricerca è sensato solo se i criteri vengono rapportati
a un’idea chiara di qualità scientifica. I criteri che poi verranno prescelti
saranno appropriati o meno rispetto a
questa specifica idea, e non in assoluto. Spiego quindi i criteri che
suggerisco di adottare in quest’ottica, per dare poi qualche indicazione
operativa.
La prima cosa da dire è che,
soprattutto in una disciplina multi-paradigmatica come la sociologia, mi pare impossibile
giungere a una nozione sostantiva di
qualità scientifica che sia condivisibile.
I diversi paradigmi differiscono troppo tra loro nei criteri di rilevanza,
nelle logiche argomentative, nei criteri di validazione empirica. Cosicché, per
fare solo un esempio, Bauman e Giddens sono per qualcuno le massime espressioni
della sociologia contemporanea, mentre per qualcun altro sono le massime
espressioni della sua decadenza. Potremmo discutere infinitamente
sull’argomento, senza giungere mai a un accordo. Questo può piacerci o meno, ma
è un dato di fatto. Ed è impensabile che un paradigma possa imporre agli altri
i suoi criteri di scientificità.
E’ molto più sensato, allora, partire
da una visione procedurale di qualità
scientifica: è di elevata qualità un contributo che ha superato una valutazione
rigorosa e una selezione di elevata qualità. Un requisito indispensabile per la
qualità della selezione è la peer review.
Intanto perché solo se è garantito l’anonimato del referee (e possibilmente
anche quello dell’autore), sono possibili (anche se non scontati) giudizi
indipendenti e imparziali. Inoltre, ed è il punto decisivo, solo specialisti
che si occupano degli argomenti trattati in un dato articolo possono giudicare
quanto esso sia innovativo rispetto alla letteratura esistente, se abbia
ricostruito accuratamente questa letteratura, se usi metodi appropriati.
La peer review ha anche alcuni difetti, ma è il metodo di selezione
migliore a disposizione della comunità scientifica ed è di gran lunga quello
più usato nelle altre discipline in tutto il mondo: perché mai la sociologia italiana
dovrebbe comportarsi diversamente?
Per intendersi, questo argomento
spiega perché trovo insostenibile la proposta fatta da qualcuno a Bologna di
affidare a un “comitato di saggi” una valutazione preliminare della qualità
scientifica dei candidati a concorsi. Non dimentichiamo che la valutazione
della qualità scientifica è già parte integrante del processo di
produzione scientifica e va fatta fare a chi deve farla: referee qualificati e
imparziali che siano esperti del tema trattato. La valutazione a fini
concorsuali dovrebbe essere basata sopratutto sui loro giudizi, non su quelli
espressi da sociologi “saggi”.
Nella comunità sociologica
italiana è molto difficile garantire l’anonimato del referaggio per un semplice
fattore di scala: sono così pochi i sociologi che si occupano di uno specifico
argomento, che quasi sempre si conoscono benissimo tra loro. E’ molto facile
capire chi ci ha valutato, ed è altrettanto facile sapere chi stiamo valutando.
Se salta l’anonimato, s’innescano facilmente meccanismi perversi: gli asti
personali, le rivalità tra colleghi, le appartenenze corporative, gli scambi
indiretti (io promuovo il tuo articolo oggi e tu promuovi il mio articolo
domani). Nella mia esperienza, queste cose sono all’ordine del giorno nelle
riviste italiane - al di là della buona volontà o dell’impegno di chi le
dirige. Nelle riviste internazionali invece queste dinamiche sono molto
depotenziate: conta meno chi ha scritto, conta più quello che si è scritto.
Beninteso, i giudizi dei referee di queste riviste potranno essere accurati
oppure superficiali, equilibrati oppure faziosi, ma per questi referee ha
rilevanza nulla il fatto che tu appartenga a questa o quella componente o
famiglia accademica italiana. Sarebbe provinciale credere che “gli stranieri
sono più bravi di noi”: talvolta si, talvolta no, ma il punto è che sono un po’
più bipartisan (e completamente indifferenti alle nostre divisioni corporative).
Se si vuole che la qualità scientifica sia valutata a prescindere dalle
appartenenze (un altro ovvio criterio procedurale), le riviste straniere sono il
posto ideale da cui partire.
Questo è già un primo argomento
per privilegiare, nella valutazione della ricerca, gli articoli referati in
riviste internazionali. Un secondo argomento è che la frontiera della ricerca
sociologica non si gioca nelle riviste del singolo paese, bensì nel dibattito
internazionale che avviene in un certo numero di riviste straniere. E’ questo,
quindi, il golden standard (anche se
non l’unico standard, vedi sotto) a cui puntare. A meno di non volersi
autoescludere in partenza dal dibattito internazionale. Ma perché rinunciarvi
in partenza? Qualcuno ha detto che gli italiani che provano a pubblicare
all’estero rischiano di rendersi ridicoli: ma perché dobbiamo avere sempre i
complessi di inferiorità? Io invece vedo sempre più colleghi, soprattutto
giovani, che trovano spazio e riconoscimento quando cercano di pubblicare su
riviste straniere.
Un terzo argomento per
privilegiare le riviste straniere è che l’Unione Europea e diverse agenzie
internazionali sono diventate fonti di finanziamento della ricerca molto
importanti. Chiaramente questi soggetti valorizzano soprattutto le
pubblicazioni internazionali. Rinunciare a queste fonti di finanziamento
sarebbe suicida. Naturalmente è più facile (e
veloce) pubblicare nella rivista della propria parrocchia, piuttosto che
passare attraverso un rigoroso referaggio internazionale. Quindi, se non si
creano forti incentivi a favore della seconda opzione, la maggioranza sarà
spinta a perseguire la prima.
Per tutti questi motivi, mi trovo
molto d’accordo con chi propone di dare priorità nella valutazione scientifica
alle publicazioni referate nelle riviste internazionali, identificabili ad
esempio mediante banche-dati come ISI o Scopus.
Questa logica procedurale avrebbe
tre vantaggi:
- è istituzionalizzata: ISI e
Scopus sono usate in giro per il mondo e in molte discipline: perché mai la
sociologia italiana dovrebbe fare eccezione?
- è pluralistica: queste
banche-dati ospitano riviste sia teoriche sia empiriche, sia quanti che quali,
sia specialistiche che generaliste, inerenti i diversi settori di ricerca, ecc.
- è accessibile: dentro queste
banche-dati ci sono riviste ultraselettive, ma anche riviste abbordabili per
chi fa semplicemente ricerche oneste e dignitose. Non è un’asticella troppo
alta: c’è spazio quindi per livelli qualitativi variabili.
Dati i criteri procedurali,
questi livelli qualitativi riflettono il rigore più o meno stretto nell’applicare
i criteri sostantivi di qualità, interni a ciascun paradigma. Ciascun paradigma
deve avere (e ha), al suo interno, criteri di qualità sostantivi identificabili.
Naturalmente alcuni criteri sono trasversali ai paradigmi, mentre altri sono
necessariamente specifici (es. per uno studio quantitativo: qualità degli
indicatori prescelti, appropriatezza dei modelli statistici, ecc.). Questi
criteri possono essere applicati in maniera più o meno stringente e selettiva:
questo determina una gerarchia tra le riviste di settore, all’interno di un
dato campo di ricerca. Ad esempio, se chiedete a uno studioso delle classi
sociali o delle migrazioni quali siano le riviste internazionali centrali nel
suo campo di ricerca, non avrà troppe difficoltà a rispondervi.
Questa gerarchia tra riviste,
collegata al rigore nella selezione dei contributi, è catturata piuttosto bene
dagli indici bibliometrici. Se prendete il vostro campo di ricerca e guardate
quali sono le riviste più forti secondo questi indici, è improbabile che
troviate implausibili i nomi che leggerete. Ovviamente ciascun indice avrà i
suoi limiti e offrirà un punto di vista parziale (sono pur sempre solo indici!), ma il fatto interessante è che
indici diversi rivelano un buon grado di concordanza sui lineamenti di fondo
della graduatoria di qualità tra riviste.
Voglio sottolineare il valore
procedurale e pluralistico di questi indici: essi valorizzano chi eccelle
all’interno degli specifici paradigmi e settori di ricerca, senza pretendere
che sia possibile accordarsi su una gerarchia tra questi paradigmi e settori. Questi
indici ci evitano di dover decidere se Bauman sia un genio o un parolaio,
oppure se il saggio di Caio sia un’opera fondamentale o mediocre: ciascuno può
avere e mantenere le sue opinioni personali, ma quando si tratta di valutare la
ricerca, il problema è garantire un minimo grado di intersoggettività, un
terreno di confronto comune.
Obiezioni:
- E gli articoli in riviste
italiane? Non dico certo di ignorarli, soprattutto perché altrimenti si crea un
incentivo negativo a studiare il nostro paese (per molte riviste americane, un
articolo sull’Italia ha una rilevanza prossima a zero). Dico però che, per le
riviste italiane così come per quelle straniere, non si può misurare la qualità
“a peso”, cioè contando gli articoli pubblicati come se valessero tutti allo
stesso modo. Il rigore della selezione che hanno superato non è lo stesso: non
si può ignorare questo fatto. Non si può equiparare la “pubblicazione assistita”
nella rivista della propria parrocchia alla pubblicazione in una rivista trasversale
che applica un referaggio più rigoroso e imparziale. Del resto, se usiamo
metodi bibliometrici, la centralità o la marginalità delle diverse riviste
italiane o straniere nel dibattito scientifico emergono chiaramente. Inoltre, se
si privilegiasse il criterio delle riviste ISI o Scopus, tutte le riviste
italiane serie che rispettano certi standard procedurali avrebbero un incentivo
concreto ad accreditarsi.
Gli indici bibliometrici
comportano sempre delle semplificazioni, ma sono un criterio di gran lunga
migliore che valutare la qualità scientifica “a peso”. E sono un criterio molto
meno arbitrario e manipolabile che mettersi a discutere, sulla base delle
opinioni di ciascuno, se un dato saggio sia mediocre oppure eccezionale. Non
credo che dovremmo temere troppo le inevitabili semplificazioni fatte da questi
indici: dovrebbe spaventarci molto più l’assenza di regole chiare e imparziali.
- E le monografie? Se parliamo
delle monografie italiane, non dimentichiamo che la quasi totalità delle case editrici
dove scrivono i sociologi pubblica saggi a pagamento. Pubblicare una monografia
italiana, quindi, non è un indicatore molto affidabile di qualità scientifica; al
più è un indicatore delle risorse finanziarie dell’autore e dei suoi agganci
informali con le case editrici. Esiste invece un certo numero di case editrici
straniere che puntano su una reale selezione scientifica e usano un effettivo sistema
di referaggio: le monografie e i capitoli di volume di queste case editrici hanno
reale rilevanza scientifica. Di nuovo, non è che queste case editrici siano per
forza migliori di quelle italiane, è solo che sono un po’ meno venali e un po’
più bipartisan.
Carlo Barone (Università di Trento)
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