sabato 11 febbraio 2012

“Per la sociologia pubblica”: meritocrazia ed etica sociale


Oggi si discute sempre più spesso di meritocrazia e  di etica sociale. Mi sembra che l’opinione pubblica percepisca questi valori come segnali di cambiamento del modello economico e sociale. Questi valori sembrano accompagnare tutti i programmi di riforme, del mercato del lavoro, delle istituzioni professionali ecc. Ho l’impressione, perciò, che non possiamo esimerci dal rendere “pubblici” i dibattiti sui paradigmi meritocratici e etici, che, peraltro, ci contraddistinguono come gruppo di sociologi del movimento “Per la sociologia”, ed anzi ne hanno segnato la nascita. Penso che  dovremmo farlo per sollecitare la nostra associazione professionale a mettersi in relazione più diretta con i suoi pubblici, non fermandosi all’interno dell’accademia ma aprendosi al sociale. 


La premessa a questo mio intervento risiede nella convinzione che l’AIS sia del tutto autoreferenziale. Finisce per rappresentarsi come una corporazione che, attraverso le sue elite, si concentra solo sul controllo delle inclusioni e delle carriere. La Sarfatti Larson direbbe che si concentra sul controllo della “produzione dei produttori”, sul reclutamento e sulla selezione attraverso dei meccanismi  che permettono alle elite di riprodursi. Infatti, non mi risulta che l’AIS sia mai entrata nel dibattito sociale e politico, che abbia mai pubblicizzato il suo parere sulle riforme sociali. Da notare che questo ruolo pubblico è un obiettivo dello Statuto, anche se non mi sembra esista una forma di mandato diretto non solo al presidente dell’AIS, ma anche a qualche componente degli organismi direttivi.

Un’organizzazione professionale dovrebbe avere un ruolo pubblico, come, citando Durkheim, scriveva qualche anno fa Burawoy, l’attuale presidente dell’Associazione Internazionale di Sociologia, in un convincente articolo con cui la rivista online Sociologica si affacciava sulla scena disciplinare (proprio il n.1/2007). Se la sollecitazione diretta ci arriva da Burawoy, per il quale “un’associazione di sociologi dovrebbe intervenire sui processi sociali”, una, teorica ma non meno diretta, proviene dalle analisi di Bourdieu sul mestiere di sociologo come “soggetto collettivo che serve l’umanità”. Mi sembra che la recente e rinnovata riflessione sull’opera di Bourdieu, sulla sua analisi del ruolo politico e sociale della sociologia, sia rimasta alquanto circoscritta, e il dibattito sulla sociologia pubblica aperto da Burawoy sia rimasto fermo agli entusiasmi dell’inizio, e, comunque, non abbia influenzato le discussioni sull’assetto associativo della sociologia italiana.

Invece, ora, avendo in mente proprio questo dibattito, vorrei proporre una riflessione sul ruolo pubblico della sociologia, sulla relazione tra l’ottica disciplinare e i diversi pubblici, quelli interni, come gli studenti e i giovani in carriera nell’accademia, e quelli esterni, che bisognerebbe individuare e che “se non ci fossero bisognerebbe creare”!  Insomma, osservando i cambiamenti etici nella nostra vita associativa e nella società, più che altro le esigenze di cambiamenti etici, mi sembra che l’occasione sia propizia perché la sociologia intervenga pubblicamente sui temi della meritocrazia e dell’etica sociale.

 Sono i temi sui quali già si va discutendo nell’agone politico, e, come si può facilmente notare, domina la visione economicista che li propone in termini di acquisizione e di distribuzione della ricchezza, mentre rimane molto sullo sfondo la visione sociologica dei termini di acquisizione e distribuzione delle risorse sociali, delle posizioni lavorative e delle responsabilità di status. Sono temi a cui noi, come sociologi, siamo molto sensibili, in particolare noi del blog “perla sociologia”, come mi hanno ulteriormente confermato le reazioni ad un mio precedente intervento. 

“Perlasociologia”, quindi, ha già avviato la discussione su questi temi, ma ancora prima il blog della Treccani. Può questa discussione essere ricondotta ad una linea interpretativa e ad un codice di comportamenti, che siano condivisi? E può, poi, metterci in relazione con un pubblico specifico o con pubblici diversi? Per esempio, si può partire dalla discussione sui soggetti discriminati negli accessi e nelle carriere nella sociologia, per allargarsi ad individuare le caratteristiche sociali dei soggetti discriminati, il genere o la meridionalità? Può essere questo il modo in cui la sociologia costituisce uno dei propri pubblici, accomunato dall’esigenza di critica all’assetto valutativo e selettivo e di progetto di trasformazione dei criteri meritocratici e dei comportamenti etici dei valutatori?     

La sociologia, intesa come organizzazione professionale, deve svolgere un ruolo pubblico, deve darsi il compito di pronunciarsi pubblicamente sulla meritocrazia e sull’etica sociale. Certo, questo compito implica alcune questioni: chi si propone di definire la linea interpretativa condivisa e il codice di condotta? chi si fa carico di rappresentare quella parte che condivide il modo di intendere quei valori e che si comporta di conseguenza? con quali strumenti si propone questo ai pubblici esterni all’accademia?

Partiamo dalla linea interpretativa condivisa. Il dibattito è cominciato da più di un anno, si è concentrato sull’assenza di meritocrazia nel sistema accademico delle valutazioni comparative e sui parametri di valutazione che potrebbero limitare i comportamenti eticamente censurabili di alcuni nostri colleghi, che ancora sopravvivono, ahimè. Da qui, un codice di condotta potrebbe essere formulato come finalizzato a dare forma visibile alla condivisione di alcuni  parametri minimi. Questo non è tuttavia sufficiente, a mio parere, se non si lega “all’analisi dei fenomeni sociali”, “all’interpretazione dei processi di cambiamento e dei meccanismi di riproduzione che interessano la nostra società”, come si legge nel documento del gruppo “Progetto organizzativo”.

 Ma veniamo alla questione di come rappresentare pubblicamente questa linea interpretativa condivisa, con quali strumenti. E’ molto difficile pensare a strumenti e ad occasioni pubbliche, ma mi sembra che si possa cominciare discutendo tra di noi e con altri scienziati sociali, nel presupposto che discutere dei codici etici nelle discipline universitarie, come la sociologia, ma anche come la filosofia, la scienza politica, l’economia politica, il diritto del lavoro, significa concorrere a rendere consapevoli dei valori sociali le future classi dirigenti e professionali. Come è stato bene messo in evidenza da Brint o Savage, noti a tutti noi, nel processo educativo e formativo, in qualsivoglia disciplina, i codici di condotta sono trasmessi, implicitamente, insieme alle tecniche e alle nozioni.

Potrebbe essere un punto di partenza per noi, “perlasociologia pubblica”, darci  il compito di rappresentare pubblicamente il nostro modello etico e discuterlo insieme agli altri scienziati sociali, in una visione più ampia delle trasformazioni del modello economico e sociale e dei valori che possono informare l’ordine sociale? Non possiamo anche darci il compito di interloquire con gli organismi di rappresentanza della disciplina e di gestione del sistema universitario su finalità scientifiche, di confronto su questi temi? 

Mirella Giannini
Università “Federico II” di Napoli


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