mercoledì 7 marzo 2012

La sociologia per

Accolgo con piacere l'invito a intervenire su questo blog, come una tra i molti colleghi e le molte colleghe che guardano con preoccupazione a quanto sta avvenendo in questi mesi dentro e fuori l'università pubblica. Lo faccio qui perchè, alla luce alle posizioni polifoniche e dissonanti che questo sito ospita, esso mi sembra costituire uno spazio accogliente, un luogo opportuno per affrontare i nodi che confrontano la sociologia e il ruolo della sociologia nella fase storica in cui viviamo. Vorrei partire dall'intervento dell'11 dicembre 2011, “Le Ragioni di una Perplessità” per dare voce qui a una sorta di desiderio: il desiderio che una disciplina in potenza così fertile possa divenire non solo un riflesso dei tempi, il ritratto di una trasformazione all'interno della quale il sapere è sempre di più uno strumento di egemonia, ma possa dare origine a un'esperienza diversa, e divenire lo spazio entro il quale mettere in dialogo tra loro conoscenza ed esistenza dentro e fuori le mura accademiche.

Comincio da “Le Ragioni di una Perplessità”, perchè in modo simile ai colleghi che hanno firmato la lettera del 21 dicembre, ho condiviso la preoccupazione per gli effetti che la Legge 240 avrebbe avuto sulla vita universitaria, e in modo parimenti affine ho sentito a volte con amarezza la distanza della disciplina da quanto stava avvenendo all'esterno, giungendo alla conclusione, cui i colleghi si riferiscono, che la cultura italiana, un po' come la società italiana, è lacerata da una spaccatura generazionale profonda, tanto diffusa nel paese quanto lo è nella sociologia.


Non desidero, tuttavia, soffermarmi su questa spaccatura. Vorrei tentare un'analisi di quanto sta avvenendo oggi, a marzo 2012, nel tentativo di comprendere se e come sia possibile affiancare alla riflessione di per la sociologia, l'analisi di ciò che può fare la sociologia per, riprendendo in questo senso le risposte di Filippo Barbera, Roberta Sassatelli, e il lavoro di Marco Santoro, in modo complementare e convergente. Tento questa riflessione in modo interlocutorio, mossa dalla fiducia nella sensibilità che guida gli autori e i lettori di questo blog, oltrechè dalla constatazione dello stato di emergenza in cui versa l'università italiana, emergenza che, temo, vede nella Legge 240 un punto di partenza, ben più che un punto di arrivo.


Scendo nel concreto, e vengo in particolare al nodo che secondo me oggi confronta la comunità accademica. La Legge 240/2010 ci ha lasciato un'eredità. Ogni riforma dell'istruzione è una riforma culturale, scriveva Walter Benjamin, e la 240 ci ha lasciato in eredità una cultura: la cultura dell'efficienza e del merito. Il concetto di merito, si sa, è insidioso. Devo prescindere, per ragioni di spazio, dall'analisi del concetto, ma vorrei almeno citare il testo di Michael Young che ha dato vita al concetto di meritocrazia, o il lavoro di Bourdieu e Foucault, senza il quale, a mio modo di vedere, non è possibile riflettere adeguatamente su quanto sta avvenendo. Scendo dunque ai nodi critici. Su Roars abbiamo seguito con attenzione le modalità di valutazione del cosiddetto merito, la frettolosa elaborazione e applicazione di strumenti valutativi. In generale, Baccini e De Nicolao hanno messo in guardia rispetto all'affidabilità delle classifiche di riviste messe a punto da società scientifiche e gruppi disciplinari; all’inconsistenza metodologica di una valutazione a più stadi degli articoli; all’erroneità delle classifiche delle riviste basate sulla media dei loro ranks (si veda Baccini: VQR. La bibliometria fai-da-te dell'Anvur). 


Tutti questi temi, nuovi in Italia ove la valutazione non ha una lunga tradizione, sono a lungo stati oggetto di discussione all'estero. Più volte è stato osservato con preoccupazione l'effetto distorsivo potenziale che le classifiche di riviste possono avere sulla sopravvivenza di interi settori disciplinari, il pericolo nell'utilizzo di tale strumento di valutazione per il giudizio di individui o strutture, il richiamo alla necessità di raffinato rigore metodologico. Si tratta di un dibattito piuttosto ampio, che lungi dall'esimersi dalla necessità di una buona valutazione, tenta di raffinarne gli strumenti, cosa necessaria, specie oggi in Italia, precisamente a causa della spaccatura generazionale cui mi riferivo sopra. 


Ciò che più mi sembra preoccupante, in questo senso, è non solo la fretta un po' confusionaria con cui l'Anvur ha delegato alle società disciplinari la produzione di classifiche, cosa già ampiamente criticata dalla letteratura, ma l'anomala sovrapposizione, più volte rilevata, tra uso scientifico e uso politico della valutazione. Se all'estero la finalità delle agenzie di valutazione era produrre “quality profiles”, e a questo fine si agiva sempre, o si tentava di agire, con imparzialità, in Italia il discorso sulla valutazione si è intrecciato, spesso, e pericolosamente, al discorso politico. La finalità di usare la valutazione per “tagliare” qualche sede è stata espressa più volte, basti pensare all'intervista del 4 febbraio scorso da parte del coordinatore del VQR su Repubblica. Nella stessa direzione va il recente decreto 437, che ribadisce la necessità di produrre un sistema di graduazioni e situazioni eterogenee tra atenei, al fine di  modulare su questa base i finanziamenti e il reclutamento, e “eliminare le strutture universitarie inefficienti” (Sezione 5, punto C). Vi sono state molte critiche, a questo riguardo, addirittura dalla Crui: “non si può chiedere alle Università italiane, [...] di continuare a decrescere anche negli anni successivi al triennio “emergenziale” appena trascorso. Se questa politica fosse protratta, l’Università italiana si troverebbe minata nelle sue fondamenta”.


Ci troviamo dunque in un momento storico delicato, in cui, lungi dall'essere superate, le difficoltà che confrontano l'accademia italiana, vivono una fase frammentaria e confusa di accelerazione. In questo senso mi chiedo (e chiedo): quale contributo può dare, in tutto questo, la sociologia? Credo sarebbe utile inserire il dibattito sulla valutazione nel più generale processo di smantellamento del welfare che colpisce l'università pubblica, in Italia e all'estero, come sarebbe interessante decentrare un concetto di merito sempre più legato all'efficienza e alla competitività individuale, per riportare al centro della discussione la relazione tra saperi e società, dentro e fuori le mura accademiche. Esiste una sociologia per tutto questo? È una domanda aperta, che pongo a me, e a chi pazientemente è arrivato sin qui. 

Francesca Coin (Università Ca' Foscari)

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