mercoledì 9 novembre 2011

Per la sociologia, dopo Bologna

Sono intimamente solidale e anche grata nei confronti dei giovani colleghi chestanno dedicando tanto tempo e intelligenza per il bene della sociologia inItalia. Mi preme premetterlo, per evitare che le osservazioni che seguono che,come vedrete, sono molto amare, possano essere interpretate come presa didistanza. Tutti i giovani che ho sentito a Bologna chiedevano concorsi piùgiusti, la valorizzazione del merito, un’università migliore in cui lavorarecon impegno e passione. Sono i valori accademici per i quali mi sono da sempre battuta. Ciò premesso, ecco le mie riflessioni.

Da buona sociologa, invito tutti coloro cui stanno a cuore i destini della nostra disciplina, nonché, lecitamente, i destini della propria carriera, ad abbandonare analisi e propositi che non tengano in conto i meccanismi di funzionamento del sistema sociale rappresentato dalla nostra “non comunità”accademica e le logiche d’azione degli attori.


1) Il fatto che la lingua italiana non venga parlata se non nel nostro paese ha consentito lo strutturarsi di una comunità scientifica provinciale, la cui produzione è stata largamente ignorata nel resto del mondo, anche quando di buon livello. Negli anni 90, in un dipartimento di sociologia in Gran Bretagna, mi è capitato di citare uno dei nostri massimi colleghi (secondo molti, il massimo, allora come oggi) e di scoprire con sorpresa che isuoi scritti e perfino il suo nome erano del tutto sconosciuti. A parte eccezioni, la gran parte della disciplina si è dunque sviluppata al riparo dai confronti con gli altri paesi, in una sorta di regime autarchico, privo di competizione allargata. E’ uno stato di fatto con radici sociologiche, che non può essere ignorato. Paradossalmente, se gli emigranti italiani negli Stati Unitifossero stati in grado di conservare la loro lingua, come hanno fatto successivamente gli ispanici, molte cose sarebbero andate diversamente anche per noi.

2) A Bologna molti intervenuti hanno auspicato l’avventodi un sistema reputazionale, con lo scopo di disincentivare i commissari dalricorrere a criteri non legati alla qualità scientifica dei candidati. Taleproposta per essere efficace presuppone che la reputazione non abbia avuto spazio in Italia. In realtà la reputazione conta, eccome, ma ha una sua diversa definizione. Agli inizi della carriera, ai tempi in cui si usava socializzare igiovani ai segreti meccanismi dell’accademia, mi sono stati raccontati due aneddoti molto istruttivi (non importa a quali ambiti disciplinari si riferissero). Il primo riguardava un “barone” solito a riaffermare il proprio potere mettendo in cattedra allievi cretini, perché, sosteneva, a promuovere i meritevoli sono tutti bravi. Il secondo aneddoto si riferiva ad altri due “baroni” fieri del loro metodo per dominare le commissioni (anche a quei tempi composte da 5 membri), nelle quali continuamente riuscivano a essere nominatiin tandem. Lestamente i due compari individuavano il commissario che aveva fra i candidati un allievo veramente impresentabile e senza alcuna opportunità, gli proponevano cinicamente l’insperata alleanza (un cretino a te, tutti gli altri a noi) e il gioco era fatto. I tre “baroni” degli aneddoti godevano di indiscussa grandissima reputazione scientifica, erano stimati e riveriti.

In Italia la reputazione non si basa solo sulriconoscimento scientifico e non è volontaristicamente che si può trasformarequesto stato di fatto. Affidarsi inoltre alle valutazioni dell’ANVUR, e allaconseguente ripartizione di fondi MIUR ai dipartimenti più produttivi, con loscopo di incentivare comportamenti concorsuali virtuosi, in questo paese e inquesto (quanto lungo?) momento, mi sembra quantomeno irrealistico. Quando ifondi sono così limitati, i premi per i virtuosi non possono che essereinsignificanti. E allora il gioco non vale la candela, come ci insegnano glieconomisti.

3) L’articolazione per tre componenti non è frutto della volontà di qualche demiurgo cattivo, costituisce invece la soluzione organizzativa emersa tramite un lungo processo di aggiustamenti ed errori. Gruppi di potere, inizialmente locali, si sono federati in tre partiti nazionali per perseguire più efficacemente interessi particolaristici e fronteggiare il controllo delle carriere, in coerenza con sistemi concorsualiche, pur variando nel tempo, hanno avuto due caratteristiche costanti: a)elezione dei commissari da parte dell’intera comunità dei pari e pertantoriferimento nazionale nella formazione delle commissioni, b) risorse dadistribuire in numero chiuso.
La legge Gelmini ha cambiato radicalmente il quadro, su tutti e due i punti.

a) Il futuro giudizio di abilitazione manterrà carattere nazionale, ma i commissari, anzichéeletti, saranno estratti a sorte a partire da liste di ordinari che ne avrannofatto domanda e avranno superato una valutazione di qualità. Non sarà dunquepiù necessario organizzare il voto mediante l’ausilio di partiti-componenti.Anche eventuali interventi illeciti sulla formazione delle commissionirichiederanno meccanismi di influenza diversi dagli attuali. Chi siederà nellecommissioni, inoltre, avrà progressivamente minore interesse rispetto alpassato ad adeguarsi a ferree logiche di appartenenza. Ciascuno tendenzialmentegiocherà per sé, o per piccoli gruppi, perché la sua presenza nella commissionenon dipenderà più dalla componente cui aderisce né dal favore dei suoi capi e,non ultimo, perché in quella commissione non potrà tornare per lunghi anni. Sisostiene spesso che i candidati senza affiliazione non hanno avuto alcuna opportunità di vincere concorsi. Si dimentica sempre il fatto che,analogamente, i docenti non organici a una componente, o considerati nonabbastanza fedeli e dunque poco affidabili, non venivano mai proposti perl’elezione e di fatto sono stati sistematicamente esclusi dalle commissioni.
b) Le risorse non saranno scarse, visto che nonverranno spartiti né posti né idoneità in quantità date, come nel passato,bensì abilitazioni in numero relativamente libero. Manipolando adeguatamente lascala e l’attribuzione dei punteggi, per le commissioni sarà agevole ampliareil novero degli abilitati in modo da accontentare tutti i commissari. Ilmanuale Cencelli, elaborato per la distribuzione delle idoneità fra lecomponenti in base alla loro capacità di bandire concorsi, perderà utilità.
Con questo non intendo affatto sostenere che infuturo le commissioni valuteranno in modo non particolaristico, che chi è bravoavrà un’abilitazione assicurata, che non si faranno ingiustizie, che i nonmeritevoli saranno esclusi. Mi limito a sostenere che il malaffare concorsualedovrà ammodernarsi per adattarsi al nuovo contesto istituzionale. In generale,poiché il gioco non sarà più a somma zero, probabilmente si eviterà di negarel’abilitazione a un candidato bravo, poco allineato, che magari oserà perfinoprotestare pubblicamente se si vedrà sorpassato da pletore di mediocri. Megliozittirlo dandogli la gratificazione simbolica dell’abilitazione. Mi viene dapensare che il particolarismo più che escludere alcuni bravi, darà la patente aschiere di pessimi, ancora più ampie che in passato.
E qui viene il punto cruciale della questione: larisorsa di carriera vera non sarà più gestita dalle commissioni su basenazionale (come avveniva fino agli anni 90 nei concorsi nazionali o come èavvenuto fino a ora con le commissioni locali elette dall’intera comunitànazionale), bensì sarà completamente controllata dalle commissioni locali nominateda ogni singolo ateneo che attivi un procedimento di chiamata, cui potrannopartecipare solo candidati in possesso di abilitazione. Poiché anche in questocaso non sono previste elezioni, l’organizzazione partitica per componentiperderà di utilità. Per perseguire obiettivi particolaristici immutati,serviranno alla bisogna reti molto più piccole e meno costose. Per iricercatori di tipo B con abilitazione, è prevista addirittura la chiamatadiretta ad associati, dando implicitamente per buone le valutazioni dellastessa rete attivata al momento del concorso precedente, per il contratto atempo determinato.
Che anche in futuro possano essere privilegiaticriteri altri dal merito è ovvio, e paradossalmente sarà perfino lecito, perchéin ogni caso si tratterà di scegliere fra abilitati certificati da commissarinazionali, a loro volta certificati come eccellenti. E’ ovvio che i commissari perle valutazioni locali di chiamata saranno scelti dai dipartimenti in modoassolutamente funzionale al risultato desiderato. Anch’io seguirò questalogica. Chiunque sostenga che si comporterà diversamente per certo stamentendo. Peraltro, tutti sappiamo che da sempre ogni dipartimento hadesiderato condizionare composizione delle commissioni e risultati dei concorsiin modo da avvantaggiare i propri candidati. Così come ciascun aspirante a unapromozione si è compiaciuto in cuor suo quando questo è avvenuto in suo favore,poiché noi tutti siamo abituati a considerare equo ciò che bolliamo comeparticolaristico quando riguarda gli altri. Ai colleghi che a Bologna hannoproposto di incentivare le relazioni di minoranza da parte di commissarivolenterosi, faccio presente che, stante il nuovo meccanismo concorsuale, èfuori tempo massimo e superfluo. Di dissenso non si parlerà mai più, visto chesi nomineranno solo commissari assolutamente d’accordo ex ante. A parer mio lanuova legge avrà proprio l’effetto (inatteso?) di consentire la stessa logicaparticolaristica del passato attraverso modalità più parsimoniose e menocomplesse, più consone al momento di crisi economica e agli obiettivi disnellimento burocratico (!).
Di fatto, il drammatico stato dei bilanci delleuniversità, il marchingegno dei punti organico, la restituzione al MIUR del 50%del budget liberato da pensionamenti e trasferimenti fanno sì che le universitàchiameranno quasi esclusivamente abilitati che siano già inquadrati al lorointerno, al fine di impegnare solo il differenziale di stipendio e di puntiorganico.
In sintesi, gli abilitati bravi, eccellenti, ma privi di santi in paradiso, potrannoavere grandi (insuperabili?) difficoltà a vincere l’unico concorso vero, alivello locale, che garantisce il posto. Purtroppo, non sostengo dunque che isanti in paradiso non saranno più necessari, anzi, e tuttavia sono convinta cheessi dovranno cambiare logiche organizzative. Saranno infatti progressivamentemeno utili i santi inquadrati in costosi e pesanti eserciti nazionali ediventeranno strategici i santi locali. Devo considerare amaramente che a ognisuccessiva riforma la necessità di obbedienza e lealtà ai propri padroni localidiventa più stringente. Oggi è tremendamente più forte che ai miei tempi.L’obiettivo sbandierato da Gelmini di riportare il merito al centro e ditornare al concorso nazionale, avrà come esito un localismo ancora peggiore.

4) L’ultimo punto che vorrei toccare riguarda inumerosi appelli a promuovere il merito
pretendendo l’eccellenza, soprattutto certificata dapubblicazioni all’estero. Fino a oggi relativamente pochi giovani, senz’altrobrillanti, ma non necessariamente i migliori, hanno pubblicato su rivistestraniere e sono comprensibilmente soprattutto loro a invocare il nuovocriterio. Ma questo criterio, se davvero venisse adottato, ovviamenteindurrebbe nuovi comportamenti strategici da parte di tutti i candidati,meritevoli e non. Mi domando allora se le riviste straniere saranno in grado di valutare in tempi utili i fiumidi saggi che – secondo i nostri auspici - saranno loro sottoposti. Non èdifficile immaginare effetti perversi alla Boudon. Inoltre, non è paradossaleche deleghiamo ad anonimi referees dialtri paesi la decisione su chi meriti di far parte della nostra comunitàscientifica nazionale? Qualcuno a Bologna, a ragione, ha messo in guardia dalrischio di coprirci di ridicolo all’estero. Ed è collega con un curriculumlargamente internazionale.
Anche sulla questione del merito invito tutti a esseresociologi, ricorrendo nei nostri ragionamenti agli strumenti di cui dovremmoessere dotati. Il merito nella scienza non è una qualità morale individuale deisoggetti, né si ottiene facendo fioretti o dolorose penitenze in solitudine. Lecompetenze scientifiche sono il risultato di processi sociali che avvengono incontesti dotati di caratteristiche non imputabili alla intenzionalità deisingoli attori. Ebbene, io sono assolutamente convinta che alcunecaratteristiche dell’università italiana odierna ostacolino proprio la crescitascientifica e lo sviluppo della creatività dei giovani. I fondi di ricercaistituzionali si sono ridotti progressivamente fino praticamente a sparire.Molti dei finanziamenti a disposizione dei dipartimenti sono connessi a progettidi breve durata, con obiettivi soprattutto applicativi o sociografici, diambito locale. Come ho già avuto modo di dire a Bologna, se – come nei fatti è– leghiamo il reclutamento (prima, degli assegnisti, ora anche dei ricercatori)a fondi siffatti, siamo proprio noi a impedire lo sviluppo scientifico armonicodei giovani. Un giovane studioso deve poter coltivare propri interessi,seguirli con stabilità, affrontare studi di ampio respiro, accumulare saperenegli anni, porsi grandi interrogativi. Queste sono modalità di funzionamentodelle comunità scientifiche praticamente incompatibili con il finanziamento chesta diventando prevalente nei nostri dipartimenti, dove i giovani sonocostretti a saltabeccare da un tema all’altro senza mai poter fare delle scelteautonome, etero-diretti, privati del tempo indispensabile per gliapprofondimenti teorici, impossibilitati a porsi interrogativi su più ampieconnessioni. Come faccio a pretendere da un giovane ricercatore ciò che nonsolo non ho favorito ma ho addirittura ostacolato? E non parliamo dei fondi cheservirebbero a quel giovane ricercatore per andare all’estero a studiare,sviluppare la sua ricerca, inserirsi nelle reti scientifiche internazionali.
Insomma, invito tutti a non dimenticare chel’università italiana è stata distrutta dal disinteresse quando non da unaferoce volontà vendicativa. Non possiamo criticare le riforme Gelmini e poiinvece, quando parliamo di concorsi, far finta che gli unici problemi siano ilmerito non riconosciuto o la scarsa moralità dell’articolazione per componenti.Vorrei che i giovani colleghi fossero consapevoli che chi verrà dopo di lorotroverà una situazione mutata, certo non in meglio, sicuramente ancor menofavorevole allo sviluppo del talento. E’ facile prevedere che gli effetti dellalegge 240 tra qualche anno saranno terribili sotto questo aspetto.
La nostra disciplina sta peggio di altre: avendovocazione empirica necessita di fondi di ricerca cospicui, ma è sparita dalnovero delle discipline finanziabili. Fortunati i filosofi e i letterati chepossono comunque continuare a studiare proficuamente nelle loro biblioteche,almeno fino a quando esse non diventeranno troppo obsolete.

In sintesi e in conclusione:

· Le componentiperderanno probabilmente la loro ragion d’essere, con il tempo sidissolveranno, almeno nelle loro funzioni concorsuali, e saranno sostituite dapiccole reti di dipartimenti che si scambieranno favori e docenti per lecommissioni, si daranno in prestito punti ai fini dei requisiti necessari persostenere i corsi di laurea, finanzieranno posti da ricercatore in comune,ecc..
· Interessiparticolaristici o anche di sopravvivenza delle singole università prevarrannosu criteri scientifici universalistici. Tuttavia, il criterio localistico potràsovrapporsi a quello del merito: i dipartimenti avranno in alcuni casi maggioripossibilità che in passato di consentire la carriera, rigorosamente interna,dei loro giovani studiosi di valore.
· Inutiledisquisire di crisi e rivitalizzazione della sociologia e di nuovo primato delmerito, se non siamo in grado di far sentire la nostra voce nell’arena pubblicain difesa della cultura e della scienza. Su questo siamo stati completamenteafasici. A che cosa serve l’AIS? Inoltre, a nessuno viene il sospetto checostituisca una sorta di accanimento pretendere che i giovani, o comunquecoloro che sono venuti dopo le generazioni anziane, siano davvero in grado dicompetere con i paesi dove la cultura e l’università sono invece valorizzate efinanziate adeguatamente? Pensiamo forse che le risorse economiche sianoininfluenti e che anche in loro assenza tutto possa continuare come prima, anzi meglio di prima?
· Nella miacarriera ho conosciuto almeno quattro sistemi concorsuali diversi, tuttidichiaratamente finalizzati alla promozione del merito. Le riforme che si sonosuccedute hanno sempre avuto l’obiettivo di correggere gli esiti pococommendevoli delle regole precedenti. Dopo quaranta anni mi ritrovo ancora quia discutere di regole e criteri che riescano a impedire il particolarismo. Manoi abbiamo già, da sempre, regole universalistiche e meritocratiche. Ilproblema è che non sono meritocratici coloro che le applicano, noi stessi.Quando, ormai dieci anni addietro, insieme a Loredana Sciolla, si è tentato dimettere in moto un processo di cambiamento, non si invocavano regole “piùperfette” o meccanismi virtuosi che agissero malgré i commissari, si cercava invece di costruire un’alleanza fraordinari, in prima battuta della nostra componente, i quali si impegnassero aessere loro stessi meritocratici, rispettando i principi che già esistevano,anche all’interno della soffocante gabbia delle componenti. Perché, dobbiamoavere il coraggio di affermarlo, il particolarismo non è solo frutto delmanuale Cencelli e ha operato anche all’interno delle singole componenti,nessuna esclusa. L’obiettivo ambizioso era che le buone pratiche potesserodiffondersi man mano per imitazione e che progressivamente potesserocoinvolgere anche altri, dal basso. Sessantottina e movimentista della prim’oracome sono, per un po’ ho davvero sperato che ce l’avremmo fatta. Le riunionidei dissidenti virtuosi erano affollatissime e molto partecipate, sembrava direspirare una bella aria. Poi saggi anziani hanno preso finalmente in mano lasituazione, proponendo una commissione, composta da saggi anziani, trasversalealle componenti, per negoziarne ai massimi livelli lo scioglimento progressivo,in nome del superamento del particolarismo. Con la delega, non è stato piùnecessario partecipare e impegnarsi in prima persona. Come sia andata a finireè sotto gli occhi di tutti. Due componenti, anziché sciogliersi, si sonorafforzate attraverso un’alleanza epistemologica, la terza si è di-sciolta,perché noi siamo come gli elettori del centro-sinistra, sbandieriamo tantibuoni principi, alcuni di noi sono disgustati dalle miserie della politica, maimpotenti, altri sono abilissimi comunque a tenere le redini in mano.

Bologna mi ha un po’ sconcertata. Siamo stati aparlare per ore di concorsi che non esistono più e di meriti che la macchina incui operiamo non è più in grado di sviluppare. Tutti insieme abbiamodimenticato che la nostra università negli ultimi anni è stata ferita a morte eche il paese sta affondando nei debiti, nel malaffare, nel disprezzo da partedegli altri paesi. Forse nello stesso momento in cui scrivo si sta dichiarandoufficialmente il default dell’Italia.Crediamo davvero che sia possibile far qualcosa “Per la sociologia” se il paeserimane immutato?

Maria Luisa Bianco (Università del Piemonte Orientale)

1 commento:

  1. Cara Bianco,
    ti dico subito quello su cui concordo e su cui dissento:
    - è vero che nessuna politica per il merito potrà mai funzionare senza risorse adeguate. Le buone regole non bastano: bisogna che il Miur ci metta i soldi. Il problema è ancor più grave per le scienze sociali che, come tu noti, rischiano l’estromissione. L’esempio dei bandi Firb è eclatante: si formalizza come regola che i progetti di alcune scienze hard avranno in partenza più punti. Bisogna impegnarsi anche su queste cose. Invece, per un gruppo come “perlasociologia”, è assai difficile incidere sulla carenza complessiva di fondi per la ricerca in Italia: l’obiettivo è fuori target. Altre sono le sedi e i livelli dove ci si può (e si deve) impegnare (anche Ais, se uno ci crede). Io sono venuto a Bologna sperando che non si risolvesse tutto nella lamentela sulla nota carenza di fondi e sono contento che così non sia stato. Insomma il problema è chiaro a tutti, ma forse quella non era la sede migliore per dedicargli ampio spazio.
    - concordo sulla tua previsione: l’asticella per l’abilitazione naz. sarà bassa e i veri giochi si faranno nei concorsi locali. Ma non sono così fiducioso che questo porterà al declino delle correnti. Forse queste si organizzeranno, per valutare quali siano i migliori membri a cui dire di fare domanda per le commissioni nazionali, e per gestire scambi tra concorsi locali? Ad ogni modo tu conosci queste dinamiche molto meglio di me, quindi forse mi sbaglio. Ecco un altro aspetto positivo di Bologna: si è evitata l’enfasi eccessiva sulla questione delle componenti.
    - è vero: il concetto di “buona reputazione” che hanno alcuni colleghi non è dei più nobili, ma neppure ai più cinici fa piacere che le loro azioni siano criticate in pubblico. Ad esempio, forse il collega di Udine non gradirà il post che è appena uscito sul blog; gradirà ancor meno la lettera inviata al Rettore; e meno ancora gradirebbe che la cosa finisse sui giornali.
    - Ci ricordi giustamente che siamo tutti “figli” del sistema che critichiamo: non possiamo usarlo quando ci fa comodo, e poi criticarlo quando riguarda gli altri. E’ un pro memoria da tenere ben presente, per evitare toni moralistici fuori luogo. Però, secondo me, entrare in un sistema in base a regole malate non può giustificare mai l’accettazione di queste malattie.
    - La tua disillusione dopo 30 anni di concorsi è più che fondata; qui forse la differenza di vedute riflette solo un fattore generazionale: magari tra 30 anni sarò altrettanto disilluso, ma rassegnarsi in partenza a cambiare le cose sarebbe troppo deprimente per le generazioni più giovani. E sarebbe il declino definitivo del paese.
    - non ti seguo bene sulle pubblicazioni straniere. Per te il fatto che in Italia si parli l’italiano sarebbe una causa rilevante del fatto che siamo una comunità autarchica che non pubblica e non è letta all’estero. Certo la barriera linguistica è un ostacolo, ma imparare a scrivere in inglese non è un ostacolo insormontabile, almeno per un accademico. Io ribalterei la questione: l’inglese è un problema per alcuni colleghi proprio perché si preoccupano solo o quasi di pubblicare in italiano e, così facendo, si autoghettizzano. Inoltre, tu giustamente prevedi che, se le pubblicazioni estere sono un criterio di selezione, tutti i candidati, bravi e non, cercheranno di ottenerle. Per me questo risultato è assolutamente sano. Gli effetti perversi che preconizzi sono improbabili: non vedo fiumi di nostri articoli in inglese che intaseranno le centinaia di riviste straniere. Infine a te sembra paradossale che, a monte della selezione di ricercatori italiani, stia la selezione dei loro lavori fatta (anche) da referee anonimi e stranieri. A me non sembra paradossale, ma sano. Pensare che gli italiani vadano giudicati solo da italiani sarebbe…autarchico. Ma forse qui c’è una diversità di vedute profonda, o forse a Bologna non ho spiegato bene il mio punto di vista, quindi mi riprometto di tornarvi presto su questo blog.
    Carlo Barone, Unitn

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