martedì 7 gennaio 2014

Ancora sulle "riflessioni amare"

Cari Amici,


avendo seguito fin dall'inizio parte del dibattito informale alimentato dai risultati delle abilitazioni del settore, ritengo utile dare un mio modesto contributo, per evitare che si parta subito con il piede sbagliato. L'applicazione delle regole riguardanti la prima tornata delle abilitazioni nazionali solleva una serie di problemi, che devono essere accuratamente analizzati. Temo tuttavia che il documento sulle "Riflessioni amare" impedisca di affrontare le questioni in modo corretto, perché basato su una serie di considerazioni assolutamente prive di evidenza empirica, mescolandole con altre oggettivamente rilevanti. 

Lascio quindi da parte le denunce di una "omologazione ....alle scienze hard", "imposizione ... di un modello scientista, acriticamente anglosassone", "scelte ispirate ..... ad una one best way", perchè basta scorrere anche solo sommariamente la documentazione degli abilitati per capire che le cose non stanno affatto così. Mi soffermo su 4 delle 5 questioni poste in apertura, che a mio avviso sono invece rilevanti:

1. bassissima % di abilitati. A mio avviso la commissione avrebbe dovuto tenere (informalmente) in qualche conto le conseguenze che le mancate abilitazioni potrebbero avere sul funzionamento dei corsi di laurea. Mancano ancora a riguardo informazioni sufficienti, ma sappiamo che l'introduzione dei parametri minimi di docenza, poi ritirati dal ministro, potrebbero ricomparire e costringere a ridimensionare corsi di laurea rilevanti per la sociologia, in una situazione accademica in cui altre discipline potrebbero approfittare dell'indebolimento della nostra.

2. concentrazione geografica degli abilitati. Mi rifiuto di pensare che la commissione abbia voluto punire le Università del Sud (Febbrajo non è Bossi) e avanzo due possibili spiegazioni, che certamente non esauriscono l'eziologia del fenomeno. Nella fase di formazione delle commissioni, la lista dei sorteggiabili appartenenti a sedi del Sud è risultata particolarmente sotto rappresentata (es. al Federico II° di Napoli nessuno dei tre ordinari di sociologia era sorteggiabile, a Sassari nessuno su 2, come a Salerno, Enna, Catanzaro, ma anche a Pisa, Firenze,  ecc..). Questo perchè i colleghi ordinari o non hanno dato la loro disponibilità o non potevano, perchè sotto la mediana. Un'altra spiegazione è la correlazione con gli esercizi di valutazione effettuati in precedenza (GEV e prima ancora CIVR), che già avevano rilevato differenze qualitative della produzione scientifica a livello geografico. Tutti conosciamo l'alta valenza scientifica di molti colleghi del Sud, ma sui grandi numeri dobbiamo prendere atto di una disparità, primo passo per cercare di colmarla in futuro con misure adeguate.

4. valutazioni confinate al mero piano scientifico. Qui si dimentica che il meccanismo concorsuale della riforma è costituito da due livelli, che non devono essere confusi: il primo livello (le abilitazioni) valutano appunto la qualità scientifica, condizione necessaria ma non sufficiente a fare un buon docente universitario, tant'è vero che il secondo livello, quello delle chiamate deve valutare le capacità didattiche, organizzative e la capacità di attrarre fondi esterni, perchè è questo che serve ai dipartimenti oggi.

5. giudizi stereotipi e frettolosi. Non mi sembra che i giudizi siano stati più stereotipi e frettolosi rispetto alle tornate concorsuali del vecchio rito. Certamente, la concentrazione di un lavoro immane nelle mani di pochi commissari (tutti ricordano che con il vecchio rito nazionale, se le domande supervano la soglia numerica, i commissari diventavano 9, assicurando maggior pluralismo di giudizi, se non una suddivisione dei compiti), pungolati dal Ministero, che ha programmato scadenze troppo brevi (poi regolarmente prorogate), non può avere migliorato la qualità linguistica dei giudizi. Spero che a riguardo il Ministero sia disponibile a rivedere diverse regole, a cominciare dalla necessità di formare commissioni diverse per prima e seconda fascia, anche per evitare la concentrazione del potere nelle mani di pochi.

In sostanza, ritengo che i sociologi debbano portare avanti istanze di miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza dei meccanismi di abilitazione, anzitutto trovando alleanze con altri settori disciplinari, a partire dalle associazioni professionali delle discipline presenti nei nostri corsi di laurea e negli organi di governo dell'Università come il CUN e le conferenze dei direttori. Se non saremo in grado di fare questo, la nostra progressiva marginalità diventerà irreversibile, ..... alla faccia del modello "scientista".

Antonio M. Chiesi

1 commento:

  1. Intervengo una seconda volta in quello che reputo un confronto fra soggetti desiderosi di partecipare in senso autentico ad un dibattito il meno possibile politicamente orientato da logiche di dominio o da uno stizzito risentimento ex post.
    Condivido in parte la lettera di Antonio Chiesi (punti 1 e 4) e in parte no (punti 2 e 5).
    Lascio sullo sfondo le riflessioni esposte dal medesimo che faccio mie, e mi limito a far osservare quanto segue:
    Seppure non tutti gli ordinari del Sud risultassero sorteggiabili, e seppure non sia politicaly correct attribuire etichette e stigmi a qualsivoglia persona, nulla toglie alla pesantezza di risultati concorsuali concretizzatisi utilizzando punti di vista che fuoriescono da storie ed esperienze accademiche non equivalenti e non rispettosi della dignità di tutti quei ricercatori che al Sud operano.
    Qualcuno dei commissari ha insegnato in un’università del Meridione? Sa cosa significa “strappare” una pubblicazione in riviste di classe A? Conosce la fatica di portare alle stampe un volume in collane di case editrici reputate “adeguate” e quasi tutte ubicate a “ridosso” di università settentrionali? Superare le barriere di consorteria che limitano il riconoscimento della propria ricerca, e che sono molto più ferree al Nord per l’evidente cortina creatasi con gli anni, i progetti comuni portati a termine, in fieri e futuri che uniscono, appunto, il Nord al Nord e il Nord a quel Sud che è solo una colonia del Nord? (punto 2).
    Seppure una sola pubblicazione in riviste di classe A e una sola monografia di uno studioso meridionale fosse stata valutata leggendo effettivamente ciò che conteneva da uno studioso meno appesantito dagli anni e dai “tracchigi” della politica accademica (“familismo amorale” di marca nordica?), o da uno studioso meno orientato al mero numero delle pubblicazioni (che seppur rispettose delle mediane richieste sono risultate “misere” nel complesso e nello specifico di ciascun candidato meridionale rispetto a l numero di pubblicazioni esibite dalla maggior parte dei concorrenti di Milano e Trento), o ancora da un commissario meno provincialmente abbagliato dalla patina delle internazionalizzazioni, avrebbe questo contribuito a dare a “Cesare quel che è di Cesare” e a “Dio quel che è di Dio”, senza sputare sentenze trasformatesi in giudizi spesso parziali, posticci e, me lo lasci dire, gentile professor Chiesi, ineleganti di quella ineleganza che è tipica di un Nord di ben altra tradizione rispetto al nostro povero e martoriato Meridione (punto 4).
    Ignazia Bartholini

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