Non
potendo partecipare all'incontro del 28 a causa di impegni sopraggiunti,
consegno allo scritto alcune delle cose che avrei voluto dire nella mia
comunicazione orale.
Come ha
sottolineato Pisati, in una comunità scientifica ‘sana’, gli studiosi scarsi
non pubblicano (o pubblicano solo in sedi minori e poco considerate), non sono
ammessi ai convegni, sono sistematicamente bocciati ai concorsi, non ricevono
fondi di ricerca, non raggiungono posizioni di potere. In Italia , invece, “il merito scientifico e
la probabilità di accesso alle risorse” materiali e simboliche “sono ortogonali
fra loro”. “L’accesso alla comunità
sociologica accademica italiana è regolato prevalentemente da criteri di
selezione extra-scientifici”, indipendenti, cioè, dalla qualità della
produzione scientifica dei candidati.
“Le opportunità di accesso alla comunità (e, in seguito, le opportunità
di carriera) dipendono non tanto dal possesso di ‘capitale scientifico’, quanto
dalla capacità di soddisfare requisiti di altra natura”, soprattutto la lealtà
nei confronti di qualcuno – individuo o gruppo – “che controlla in misura
maggiore o minore i meccanismi di accesso/carriera”. Se questo è il
contesto prevalente della sociologia italiana, il problema dei concorsi non
potrà essere risolto introducendo nuove regole. Regole e i criteri esistono già. Solo che molti commissari sono addestrati a
seguire altre regole o altre logiche.
Detto altrimenti, l'introduzione di nuove regole (o l’appello a quelle
esistenti) funziona solo laddove esiste già un ethos (una cultura etica) o una
deontologia professionale radicata.
Nel corso della discussione sulla crisi della
sociologia italiana sviluppatasi negli ultimi mesi, diverse persone hanno
minimizzato la questione dei concorsi, considerandola secondaria rispetto ad
altre. Ma essa non è affatto una
questione secondaria. Come ha osservato
Santoro, il reclutamento rappresenta il nodo vitale di una professione, ed il
suo funzionamento “ha conseguenze cruciali sul funzionamento della professione
stessa (ciò che si mangia ha conseguenze cruciali sul nostro corpo, sulla
nostra forma fisica, sul funzionamento del nostro intestino)”. Si spacciano per
bravi concorrenti che in una comunità scientifica ‘sana’ “a malapena
ricoprirebbero il posto di Teaching Assistant - mentre da noi possono aspirare
persino all'ordinariato”, rivendicando la pretesa - e il diritto, in effetti -
di entrare nelle commissioni “e giudicare e decidere i destini di studiosi che
a volte ne sanno e spesso hanno scritto e studiato dieci, cento volte più di
loro” (meglio commissioni composte da "pari" grado: ricercatori per
ricercatori).
Pertanto, senza arroganza ma con
determinazione, uno degli scopi dell’iniziativa avviatasi con l’intervento di Santoro,
Pisati e Barbera, è quello di contribuire a far valere e rendere operativa la
distinzione fra le cose come sono ora e le cose come vorremmo che fossero,
ossia - lo ricordava Pisati -, la distinzione fra ciò che è peggio (lo stato
attuale) e ciò che è meglio (il futuro desiderato che stiamo cercando di
costruire). Si tratta di inaugurare una
fase di transizione in cui si discuta ma anche si individuano delle azioni da
intraprendere. Qui, per questa fase di
passaggio, si inserisce la mia proposta sulle criticità delle procedure di
reclutamento. Oltre ed insieme alla
proposta di Orsini di istituire un comitato d’appoggio per i ricorsi al TAR (al
fine di aiutare e sostenere i giovani studiosi che scelgano di rivolgersi alla
magistratura), suggerisco di istituire delle commissioni-ombra che svolgano un
monitoraggio dei concorsi, un comitato di sostegno alla visibilità di chi è
senza ‘santi protettori’, ed un comitato che definisce le forme di sanzione per
i comportamenti scorretti. In quanto
segue mi concentro solo sulla proposta di istituzione di commissioni-ombra,
prendendo le mosse da quanto emerso fin qui, sintetizzando ed allargando il
contributo di diversi partecipanti alla discussione.
Concorsi
Concentriamoci allora sulla questione dei concordi. So bene che fino a quando non si troverà una
cura per la patologia di cui i concorsi sono solo il sintomo sarà difficile
trasformare la sociologia italiana.
D’altra parte, come ha sottolineato Pisati, poiché in Italia la
selezione avviene tramite concorso pubblico, ne deriva che il funzionamento dei
concorsi e i loro esiti costituiscono uno dei termini fondamentali dell’intera
questione. E' ai concorsi che, formalmente, si decide chi saranno i prossimi
dottorandi, assegnisti di ricerca, ricercatori, associati e ordinari (con
effetti che si riverberano anche al di là dei concorsi, ad esempio nelle
iniziative editoriali, nelle organizzazioni di convegni, nelle distribuzioni
dei fondi di ricerca, nell'assegnazione delle cariche associative). Ed è sempre ai concorsi che i criteri di
selezione extra-scientifici si manifestano in forma concreta e producono il
proprio effetto finale (nomi e cognomi dei vincitori/idonei), ovviamente sempre
in guisa di giudizi scientifici. Minimizzare la questione dei concorsi, dunque,
è sbagliato, “perché - sottolinea ancora Pisati - se è vero che non
rappresentano la causa distale della crisi, sicuramente ne rappresentano la
causa prossima”.
La
logica della lealtà
La cattiva gestione dei concorsi negli ultimi
decenni (concorso “pubblico” con commissioni giudicatrici elette) dipende in larga misura da quella che è stata
chiamata la logica della lealtà o della fedeltà: a una data posizione
professionale sono chiamati (cooptati) soggetti che, pur “servendo” alla parte,
sono di scarso o nullo servizio per il tutto, cioè per la disciplina nel suo
complesso, quando non risultano addirittura dannosi – per la sua reputazione,
per la sua immagine, per la sua stessa sopravvivenza come comunità scientifica. Viene deciso chi deve vincere i concorsi con
poco o punto riguardo per le capacità intellettuali e didattiche del
candidato. Pellizzoni ha notato
un’ulteriore effetto perverso di questa logica (che opera peraltro
preventivamente): è vantaggioso (necessario) passare il tempo a fare pubbliche
relazioni invece che a fare pubblicazioni scientifiche. Da questo punto di vista, lavorare un anno -
come pure succede - per veder pubblicato un articolo di 15-20 pagine su una
rivista internazionale di un certo livello, o anche semplicemente svolgere
un’esperienza significativa all’estero, è del tutto irrazionale dal punto di
vista concorsuale.
Per spezzare questa logica sono emerse almeno
tre proposte, quella di Neresini (che in buona misura ritorna nell’Editoriale
di Giglioli e Dal Lago uscito su Etnografia e ricerca qualitativa), quella di
Volontè e quella di Sciortino. Le
presento e discuto brevemente.
Proposta
Neresini
Neresini propone un sistema di “chiamate
dirette” basate sui bisogni didattico-scientifici dei singoli dipartimenti,
regolato da un sistema serio di premi/punizioni per chi seleziona bene/male:
“a) eliminazione dei concorsi e sostituzione con procedure di
assunzione diretta (selezione preliminare sulla base del CV e colloquio con i
candidati inseriti nella short-list);
b) distribuzione dei finanziamenti ai dipartimenti per una quota pari
almeno al 50% delle risorse disponibili sulla base di un rating definito
attraverso la valutazione della loro attività scientifica (pubblicazioni,
partecipazione a progetti di ricerca e network internazionali, …)”
La realizzazione di quanto indicato ai punti
(a) e (b) “produrrebbe effetti sul meccanismo della fedeltà alle componenti
poiché l’assunzione di mediocri (o peggio) produrrebbe non solo la diminuzione
della reputazione scientifica di chi ha operato in tal senso, ma avrebbe anche
effetti sulle risorse disponibili del dipartimento e quindi anche dei loro
colleghi”. In sostanza, la
penalizzazione economica del dipartimento sulla base di una valutazione ex-post
dovrebbe correggere e cambiare i comportamenti.
La proposta mi sembra
notevole ma, come è stato in parte osservato, ha - o dovrebbe avere - due
presupposti.
- un meccanismo di preselezione “pubblico” dei “chiamabili” (a livello
nazionale, indipendentemente dalle preferenze e dai regolamenti locali). Ciò, da una parte, assicura una rosa di
candidati decenti. Dall’altra
garantisce l’inclusione degli ‘esclusi’, candidati di valore che sono però estranei
alla logica della fedeltà e dunque tendenzialmente emarginati (e sappiamo
quanto tale carenza di prospettiva porti a una graduale perdita di vitalità, di
energia). Se non si riesce a intaccare
la logica che premia la fedeltà rispetto alla qualità, le chiamate dirette
agevoleranno i legami di amicizia e di cordata.
- la presenza di quella forte deontologia professionale ricordata nella
Premessa. Scrivono Barbera Pisati e
Santoro nella loro risposta critica all’Editoriale di Giglioli e Dal Lago:
“Come si fa, infatti, a stabilire se un dato “chiamato” soddisfa i bisogni didattici/scientifici
sottesi alla sua chiamata? Chi lo
decide? Sulla base di quali
criteri? E chi stabilisce quei criteri
e vigila sul loro rispetto? Chi decide
sulla bontà o meno della chiamata diretta?
Senza un serio e condiviso richiamo a quei “valori” – merito
scientifico, serietà professionale, reputazione, e così via – e senza una seria
disponibilità a discutere collegialmente e in modo trasparente di questi valori
e della loro applicazione al caso concreto”, la chiamata diretta non risolve ma
riproduce il problema.
Proposta
Volontè
Volontè propone la discussione pubblica
dell’operato di tutte le commissioni concorsuali attraverso un incremento della
loro visibilità. L’obiettivo non è
quello di “spubblicare l’operato di certi colleghi” criticando Tizio o Caio, ma consentire a ogni collega “di rendere pubbliche le
proprie valutazioni sull’operato” di ogni
altro collega, come avviene nel peer assessment. Il soggetto giudicante coincide così con
l’intera comunità disciplinare in quanto rete di pari che sono l’uno valutatore
dell’altro. Per rendere operativa tale
proposta Volontè suggerisce di istituire un blog in cui vengano aperti dei
threads per ciascun concorso espletato nelle discipline sociologiche, sicché
valutazioni e commenti siano potenzialmente postati non da qualche singolo
critico autoelettosi censore, ma “dall’intera comunità, in un libero dibattito
in cui ciascuna opinione può essere controbattuta da opinioni opposte”. Si avrebbe così un aumento della pubblicità e
visibilità pubblica dei concorsi, nonché “un luogo in cui ciascun commissario
può conservare o perdere la faccia”.
Condivido l’intento. Il punto però è che non basta solo
pubblicizzare, occorre valutare criticamente e senza timori il lavoro
professionale e scientifico dei propri pari, nonché sanzionare i comportamenti
(che si ritengono) scorretti, andando al di là del mero richiamo morale. Cosa attualmente non scontata, come notava
Bortolini: “nel nostro sistema le sanzioni informali non prevalgono sulla
struttura formale dell'accademia: posso pubblicizzare, criticare e
stigmatizzare l’operato dell'ordinario XY, ma il sistema gioca […] a suo
favore, perché il suo ruolo gli permette di prendere decisioni alle quali io
non posso oppormi”.
Proposta
Sciortino
Per Sciortino, il problema dei concorsi ha a
che fare con le soglie minime, non con le soglie massime (capaci di stabilire
chi è più meritevole in assoluto). Le
commissioni, spiega Sciortino, “operano in mancanza di criteri minimi, e quelli
attualmente proposti per l'area 14” sono laschi e provinciali. Sciortino suggerisce pertanto di seguire
(direi meglio: interiorizzare) le seguenti regole
- “non votare mai a favore di un candidato a una borsa
post-doc che non abbia un articolo pubblicato/accettato da una rivista
internazionale referata (che per Sciortino significa: non italiana); a non votare mai a favore di un
ricercatore a TD che non ne abbia almeno 3; a non votare mai per una
candidato alla seconda fascia che non ne abbia almeno 6; a non
votare mai per un candidato alla prima fascia che non ne abbia almeno
9”. Monografie italiane, didattica, preferenze teoriche e metodologiche, temi
di ricerca, previa presenza sul posto, etc. “vengono presi in considerazione
solo per i candidati che siano superiori a tali soglie”.
- “chiedere di non assegnare borsa post-doc/posto a
TD/seconda/prima fascia qualora nessuno dei candidati rispetti le soglie
precedenti”;
Sciortino conclude ricordando come tali norme
- “si sottoscrivono sul proprio onore, a titolo personale e del quale
si è responsabili col proprio onore;
- lasciano liberi i commissari di esercitare la propria legittima
libertà personale nel valutare il merito dei candidati” (nessuno dei casi
dibattuti nel corso della discussione apertasi sul sito Treccani, secondo
Sciortino, si sarebbe mai dato se queste regole fossero state applicate da un
numero sufficiente di commissari).
L’idea di introdurre criteri secchi e
stringenti che costringano tutti a cambiare (almeno un po’) mi sembra molto
valida. Ma il tentativo di individuare
dei criteri minimi di “decenza scientifica” per decidere i vincitori dei
concorsi appellandosi alla propria
coscienza è troppo poco costringente, non contempla forme di enforcement né da parte di chi dovrebbe
farle proprie, né di chi le trasgredisce.
L´adozione individuale, volontaria e pubblica di criteri minimi di
decenza obbligherebbe a qualcosa che sin qui è mancata nell´università che
conosciamo: la personale assunzione pubblica di responsabilità rispetto alle
scelte che si fanno
Una
soluzione ulteriore
Se la formazione di un altro ethos
professionale resta lo scopo di lungo termine, a breve, per agevolare la
transizione verso altre forme di reclutamento, mi sembra utile istituire dei
comitati. Oltre a quelli ricordati
(comitato d’appoggio per i ricorsi al TAR, comitato di sostegno alla visibilità
degli esclusi, comitato di individuazione delle sanzioni per comportamenti
scorretti), suggerisco di istituire delle commissioni-ombra destinate a
monitorare i concorsi espletati nell’area delle discipline sociologiche. Non so se ci siano vincoli giuridici sulla
loro costituzione, né sono in grado di stabilire se sia necessario un
cambiamento legislativo. Mi limito
pertanto a descriverne il funzionamento.
Con commissione-ombra intendo un organismo
che si forma contestualmente e sistematicamente all’elezione di ogni
commissioni giudicatrici allo scopo di
- articolare una valutazione indipendente dei
candidati
- valutare criticamente l’operato della
commissione giudicatrice
Mentre la via giudiziaria interviene ex-post
qui si agisce in parallelo. Non solo,
mentre i casi in cui è intervenuta la magistratura riguardano le procedure
(come valutare ai fini di un concorso un libro uscito dopo i termini della
domanda), ma non le decisioni della commissione
che, condivisibili o meno, sono in un certo senso sovrane (ci saranno relazioni
di minoranza, ma poi si vota e la maggioranza vince), qui si tratta di
monitorare proprio tali decisioni. La
maggior parte dei concorsi espletati, osservava Bortolini, sono impeccabili dal
punto di vista formale (privi di irregolarità amministrative) e tuttavia molti
restano ingiusti da un un punto di vista scientifico.
a.
Documenti di riferimento
Su cosa può concentrare la propria attenzione
la commissione-ombra? Anzitutto sui
curricula dei candidati e sui giudizi dei commissari, ossia sui risultati dei
lavori (non pubblici) delle commissioni.
Già questi documenti, come osservava giustamente Volontè, renderebbero
possibile intercettare le più evidenti scorrettezze e forse – grazie alle
pressioni del naming e shaming – contrastarle.
Ai commissari eletti nelle commissioni concorsuali si può anche
richiedere di ricorrere più spesso di quanto normalmente accade allo strumento
della relazione di minoranza, consegnando a un atto pubblico le ragioni del
proprio dissenso.
Inoltre, prima e a prescindere del singolo
concorso (lo ricordavano Franca Bimbi ed Emanuela Mora), si potrebbero
pubblicare su un sito pubblico i CV degli studiosi (dottorandi, ricercatori,
associati) che aspirano a un accesso o a una progressione di carriera. Tale sito permetterebbe di avere una rapida
visione d'insieme dei profili dei candidati soggetti a reclutamento, favorendo
la capacità di comprendere ‘dove essi stanno’ in termini di innovazone
scientifica/culturale, ma anche se c’entrano le componenti.
b.
Monitoraggio
Il monitoraggio e la discussione dei singoli
concorsi da parte delle commissioni-ombra è una strategia che può rendere
più complicato il compito di chi voglia sostituire alla valutazione del merito
la logica dell’appartenenza. Offrire una
contro-valutazione dell’operato della commissione (nonché ricostruire la mappa
dei concorsi combinati a tavolino: accordi di lealtà, favori da ricambiare,
nuove amicizie da stabilire, parenti da sistemare) non avrà valore giuridico ma
può diventare uno strumento di pressione culturale. Pur non avendo statuto legale, le
commissioni-ombra fungerebbero così da contropotere rispetto al potere delle
componenti. Il loro scopo non potrà
essere quello di sottomettere i commissari ad un giudizio superiore, ma, come
ricordava Volontè, dovrà essere quello di sottometterli fin dal principio alla
consapevolezza che qualcuno esprimerà un giudizio sul loro operato, e che anche
da questo giudizio dipenderà la loro credibilità futura.
c.
Sanzioni
Al di là dei ricorsi e del TAR, che
intervengono ex post per irregolarità amministrative e illeciti penali, si
tratta di colpire la cultura diffusa che rende possibile l’occorrenza di
risultati molto discutibili (la scelta di un vincitore finale meno bravo e
meritevole di altri). Occorre pertanto
individuare le forme di protesta, nonché definire i comportamenti scorretti (i
moltissimi ‘trucchi’ a cui si ricorre).
La distinzione fra ciò che è professionalmente “giusto” (o “buono”) e
ciò che è professionalmente “sbagliato” (o “cattivo”) è tutt’altro che ovvia e
pacifica (e senza un consenso intorno ad essa, com’è possibile premiare o
punire persone e/o istituzioni?).
Ragionare sui parametri della valutazione ed essere in grado come
comunità disciplinare di fornire dei criteri condivisi (ad esempio: non ci si
addottora dove ci si è laureati; non si entra come ricercatori dove ci si è
addottorati) mi sembra importante, ma intanto non è difficile inziare a
identificare e classificare un’elenco di pratiche stigmatizzabili. Fra queste
- non è una lista sistematica - ricordo: minacciare i candidati; isolare
candidati che rifiutano di aderire alle componenti: valutare titoli non
ammissibili (ad es. libri stampati sottocasa o pubblicazioni sui quaderni del
dipartimento); screditare studiosi che scelgano di rivolgersi alla
magistratura; far vincere parenti, amici, o quattro, cinque ‘allievi’ in uno
stesso dipartimento; mettere a bando posti che perpetuano eternamente l’egemonie
di certi temi o aree; valutare esclusivamente la didattica a scapito delle
pubblicazioni (purtroppo con il nuovo sistema gli incentivi vanno ancor più
nella direzione dell'impegno didattico e organizzativo, a detrimento della
ricerca, ecc.
In conclusione, nuove regole non bastano a
cambiare habitus e pratiche consolidate che neutralizzano, per non dire
sviliscono chi merita. Per avviare
un’auspicabile fase di transizione verso una comunità scientifica più ‘sana’,
l’istituzione di commissioni-ombra destinate a svolgere una funzione critica
nei confronti dell’operato delle commissioni ufficiali, proponendo alternative
e sanzionando comportamenti scorretti, mi sembra possa essere un primo, piccolo
ma utile passo. Resta la delicata
questione del chi.
Chi andrebbe a far parte delle
commissioni-ombra? Certamente non una
oligarchia autonominatasi guardiana della qualità e intenta a moralizzare la
comunità scientifica italiana (c’è qualcosa di farsesco nell’idea di un
tribunale dei giusti che assegna pagelle ai colleghi, e non è questo l’intento
del progetto “Per la sociologia”). Ma
nemmeno, come suggerisce universalisticamente Volontè, la comunità scientifica
nel suo complesso (troppo vago) o ciascun singolo (come suggerisce Sciortino -
troppo aleatorio). A me sembra che la
commissione-ombra possa configurarsi come una unità intermedia più focalizzata
della comunità intera o della coscienza dei singoli, contrassegnata dalla
necessaria autonomia ma anche dalla necessaria autorevolezza per farsi ascoltare,
e rispettare. Detto ciò, occorre
definire come i suoi membri debbano essere eletti (certamento con trasparenza e
pubblicità, forse anche con collaboratori internazionali, ma come? Quanto spesso? Con quali criteri di ricambio?). Non nascondo che qui sta il problema: quanti
di noi sarebbero davvero disposti a sacrificare tempo (libero) ed energia per
far parte di una commissione-ombra? E
come essere sicuri che chi accetta di farne parte sia (suo malgrado) del tutto
estraneo al contesto ed ai meccanismi prevalenti in italia?
Davide Sparti (Università di Siena)
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