lunedì 10 ottobre 2011

L’ombra dei concorsi


Non potendo partecipare all'incontro del 28 a causa di impegni sopraggiunti, consegno allo scritto alcune delle cose che avrei voluto dire nella mia comunicazione orale.
Come ha sottolineato Pisati, in una comunità scientifica ‘sana’, gli studiosi scarsi non pubblicano (o pubblicano solo in sedi minori e poco considerate), non sono ammessi ai convegni, sono sistematicamente bocciati ai concorsi, non ricevono fondi di ricerca, non raggiungono posizioni di potere.   In Italia , invece, “il merito scientifico e la probabilità di accesso alle risorse” materiali e simboliche “sono ortogonali fra loro”.  “L’accesso alla comunità sociologica accademica italiana è regolato prevalentemente da criteri di selezione extra-scientifici”, indipendenti, cioè, dalla qualità della produzione scientifica dei candidati.   “Le opportunità di accesso alla comunità (e, in seguito, le opportunità di carriera) dipendono non tanto dal possesso di ‘capitale scientifico’, quanto dalla capacità di soddisfare requisiti di altra natura”, soprattutto la lealtà nei confronti di qualcuno – individuo o gruppo – “che controlla in misura maggiore o minore i meccanismi di accesso/carriera”.  Se questo è il contesto prevalente della sociologia italiana, il problema dei concorsi non potrà essere risolto introducendo nuove regole.   Regole e i criteri esistono già.   Solo che molti commissari sono addestrati a seguire altre regole o altre logiche.   Detto altrimenti, l'introduzione di nuove regole (o l’appello a quelle esistenti) funziona solo laddove esiste già un ethos (una cultura etica) o una deontologia professionale radicata.

Nel corso della discussione sulla crisi della sociologia italiana sviluppatasi negli ultimi mesi, diverse persone hanno minimizzato la questione dei concorsi, considerandola secondaria rispetto ad altre.  Ma essa non è affatto una questione secondaria.  Come ha osservato Santoro, il reclutamento rappresenta il nodo vitale di una professione, ed il suo funzionamento “ha conseguenze cruciali sul funzionamento della professione stessa (ciò che si mangia ha conseguenze cruciali sul nostro corpo, sulla nostra forma fisica, sul funzionamento del nostro intestino)”. Si spacciano per bravi concorrenti che in una comunità scientifica ‘sana’ “a malapena ricoprirebbero il posto di Teaching Assistant - mentre da noi possono aspirare persino all'ordinariato”, rivendicando la pretesa - e il diritto, in effetti - di entrare nelle commissioni “e giudicare e decidere i destini di studiosi che a volte ne sanno e spesso hanno scritto e studiato dieci, cento volte più di loro” (meglio commissioni composte da "pari" grado: ricercatori per ricercatori).
Pertanto, senza arroganza ma con determinazione, uno degli scopi dell’iniziativa avviatasi con l’intervento di Santoro, Pisati e Barbera, è quello di contribuire a far valere e rendere operativa la distinzione fra le cose come sono ora e le cose come vorremmo che fossero, ossia - lo ricordava Pisati -, la distinzione fra ciò che è peggio (lo stato attuale) e ciò che è meglio (il futuro desiderato che stiamo cercando di costruire).   Si tratta di inaugurare una fase di transizione in cui si discuta ma anche si individuano delle azioni da intraprendere.   Qui, per questa fase di passaggio, si inserisce la mia proposta sulle criticità delle procedure di reclutamento.   Oltre ed insieme alla proposta di Orsini di istituire un comitato d’appoggio per i ricorsi al TAR (al fine di aiutare e sostenere i giovani studiosi che scelgano di rivolgersi alla magistratura), suggerisco di istituire delle commissioni-ombra che svolgano un monitoraggio dei concorsi, un comitato di sostegno alla visibilità di chi è senza ‘santi protettori’, ed un comitato che definisce le forme di sanzione per i comportamenti scorretti.   In quanto segue mi concentro solo sulla proposta di istituzione di commissioni-ombra, prendendo le mosse da quanto emerso fin qui, sintetizzando ed allargando il contributo di diversi partecipanti alla discussione. 

Concorsi
Concentriamoci allora sulla questione dei concordi.   So bene che fino a quando non si troverà una cura per la patologia di cui i concorsi sono solo il sintomo sarà difficile trasformare la sociologia italiana.   D’altra parte, come ha sottolineato Pisati, poiché in Italia la selezione avviene tramite concorso pubblico, ne deriva che il funzionamento dei concorsi e i loro esiti costituiscono uno dei termini fondamentali dell’intera questione. E' ai concorsi che, formalmente, si decide chi saranno i prossimi dottorandi, assegnisti di ricerca, ricercatori, associati e ordinari (con effetti che si riverberano anche al di là dei concorsi, ad esempio nelle iniziative editoriali, nelle organizzazioni di convegni, nelle distribuzioni dei fondi di ricerca, nell'assegnazione delle cariche associative).   Ed è sempre ai concorsi che i criteri di selezione extra-scientifici si manifestano in forma concreta e producono il proprio effetto finale (nomi e cognomi dei vincitori/idonei), ovviamente sempre in guisa di giudizi scientifici. Minimizzare la questione dei concorsi, dunque, è sbagliato, “perché - sottolinea ancora Pisati - se è vero che non rappresentano la causa distale della crisi, sicuramente ne rappresentano la causa prossima”.

La logica della lealtà
La cattiva gestione dei concorsi negli ultimi decenni (concorso “pubblico” con commissioni giudicatrici elette)  dipende in larga misura da quella che è stata chiamata la logica della lealtà o della fedeltà: a una data posizione professionale sono chiamati (cooptati) soggetti che, pur “servendo” alla parte, sono di scarso o nullo servizio per il tutto, cioè per la disciplina nel suo complesso, quando non risultano addirittura dannosi – per la sua reputazione, per la sua immagine, per la sua stessa sopravvivenza come comunità scientifica.   Viene deciso chi deve vincere i concorsi con poco o punto riguardo per le capacità intellettuali e didattiche del candidato.   Pellizzoni ha notato un’ulteriore effetto perverso di questa logica (che opera peraltro preventivamente): è vantaggioso (necessario) passare il tempo a fare pubbliche relazioni invece che a fare pubblicazioni scientifiche.   Da questo punto di vista, lavorare un anno - come pure succede - per veder pubblicato un articolo di 15-20 pagine su una rivista internazionale di un certo livello, o anche semplicemente svolgere un’esperienza significativa all’estero, è del tutto irrazionale dal punto di vista concorsuale.
Per spezzare questa logica sono emerse almeno tre proposte, quella di Neresini (che in buona misura ritorna nell’Editoriale di Giglioli e Dal Lago uscito su Etnografia e ricerca qualitativa), quella di Volontè e quella di Sciortino.   Le presento e discuto brevemente.

Proposta Neresini
Neresini propone un sistema di “chiamate dirette” basate sui bisogni didattico-scientifici dei singoli dipartimenti, regolato da un sistema serio di premi/punizioni per chi seleziona bene/male:
“a) eliminazione dei concorsi e sostituzione con procedure di assunzione diretta (selezione preliminare sulla base del CV e colloquio con i candidati inseriti nella short-list);
b) distribuzione dei finanziamenti ai dipartimenti per una quota pari almeno al 50% delle risorse disponibili sulla base di un rating definito attraverso la valutazione della loro attività scientifica (pubblicazioni, partecipazione a progetti di ricerca e network internazionali, …)”
La realizzazione di quanto indicato ai punti (a) e (b) “produrrebbe effetti sul meccanismo della fedeltà alle componenti poiché l’assunzione di mediocri (o peggio) produrrebbe non solo la diminuzione della reputazione scientifica di chi ha operato in tal senso, ma avrebbe anche effetti sulle risorse disponibili del dipartimento e quindi anche dei loro colleghi”.  In sostanza, la penalizzazione economica del dipartimento sulla base di una valutazione ex-post dovrebbe correggere e cambiare i comportamenti.
            La proposta mi sembra notevole ma, come è stato in parte osservato, ha - o dovrebbe avere - due presupposti.
- un meccanismo di preselezione “pubblico” dei “chiamabili” (a livello nazionale, indipendentemente dalle preferenze e dai regolamenti locali).   Ciò, da una parte, assicura una rosa di candidati decenti.   Dall’altra garantisce l’inclusione degli ‘esclusi’, candidati di valore che sono però estranei alla logica della fedeltà e dunque tendenzialmente emarginati (e sappiamo quanto tale carenza di prospettiva porti a una graduale perdita di vitalità, di energia).  Se non si riesce a intaccare la logica che premia la fedeltà rispetto alla qualità, le chiamate dirette agevoleranno i legami di amicizia e di cordata.  
- la presenza di quella forte deontologia professionale ricordata nella Premessa.  Scrivono Barbera Pisati e Santoro nella loro risposta critica all’Editoriale di Giglioli e Dal Lago: “Come si fa, infatti, a stabilire se un dato “chiamato” soddisfa i bisogni didattici/scientifici sottesi alla sua chiamata?   Chi lo decide?   Sulla base di quali criteri?   E chi stabilisce quei criteri e vigila sul loro rispetto?   Chi decide sulla bontà o meno della chiamata diretta?   Senza un serio e condiviso richiamo a quei “valori” – merito scientifico, serietà professionale, reputazione, e così via – e senza una seria disponibilità a discutere collegialmente e in modo trasparente di questi valori e della loro applicazione al caso concreto”, la chiamata diretta non risolve ma riproduce il problema.

Proposta Volontè
Volontè propone la discussione pubblica dell’operato di tutte le commissioni concorsuali attraverso un incremento della loro visibilità.  L’obiettivo non è quello di “spubblicare l’operato di certi colleghi” criticando  Tizio o Caio, ma consentire a ogni collega “di rendere pubbliche le proprie valutazioni sull’operato” di ogni altro collega, come avviene nel peer assessment.   Il soggetto giudicante coincide così con l’intera comunità disciplinare in quanto rete di pari che sono l’uno valutatore dell’altro.  Per rendere operativa tale proposta Volontè suggerisce di istituire un blog in cui vengano aperti dei threads per ciascun concorso espletato nelle discipline sociologiche, sicché valutazioni e commenti siano potenzialmente postati non da qualche singolo critico autoelettosi censore, ma “dall’intera comunità, in un libero dibattito in cui ciascuna opinione può essere controbattuta da opinioni opposte”.  Si avrebbe così un aumento della pubblicità e visibilità pubblica dei concorsi, nonché “un luogo in cui ciascun commissario può conservare o perdere la faccia”.
Condivido l’intento.   Il punto però è che non basta solo pubblicizzare, occorre valutare criticamente e senza timori il lavoro professionale e scientifico dei propri pari, nonché sanzionare i comportamenti (che si ritengono) scorretti, andando al di là del mero richiamo morale.   Cosa attualmente non scontata, come notava Bortolini: “nel nostro sistema le sanzioni informali non prevalgono sulla struttura formale dell'accademia: posso pubblicizzare, criticare e stigmatizzare l’operato dell'ordinario XY, ma il sistema gioca […] a suo favore, perché il suo ruolo gli permette di prendere decisioni alle quali io non posso oppormi”.

Proposta Sciortino
Per Sciortino, il problema dei concorsi ha a che fare con le soglie minime, non con le soglie massime (capaci di stabilire chi è più meritevole in assoluto).  Le commissioni, spiega Sciortino, “operano in mancanza di criteri minimi, e quelli attualmente proposti per l'area 14” sono laschi e provinciali.   Sciortino suggerisce pertanto di seguire (direi meglio: interiorizzare) le seguenti regole
- “non votare mai a favore di un candidato a una borsa post-doc che non abbia un articolo pubblicato/accettato da una rivista internazionale referata (che per Sciortino significa: non italiana); a non votare mai a favore di un ricercatore a TD che non ne abbia almeno 3; a non votare mai per una candidato alla seconda fascia che non ne abbia almeno 6; a non votare mai per un candidato alla prima fascia che non ne abbia almeno 9”. Monografie italiane, didattica, preferenze teoriche e metodologiche, temi di ricerca, previa presenza sul posto, etc. “vengono presi in considerazione solo per i  candidati che siano superiori a tali soglie”. 
- “chiedere di non assegnare borsa post-doc/posto a TD/seconda/prima fascia qualora nessuno dei candidati rispetti le soglie precedenti”;
 Sciortino conclude ricordando come tali norme
- “si sottoscrivono sul proprio onore, a titolo personale e del quale si è responsabili col proprio onore; 
- lasciano liberi i commissari di esercitare la propria legittima libertà personale nel valutare il merito dei candidati” (nessuno dei casi dibattuti nel corso della discussione apertasi sul sito Treccani, secondo Sciortino, si sarebbe mai dato se queste regole fossero state applicate da un numero sufficiente di commissari).  
L’idea di introdurre criteri secchi e stringenti che costringano tutti a cambiare (almeno un po’) mi sembra molto valida.   Ma il tentativo di individuare dei criteri minimi di “decenza scientifica” per decidere i vincitori dei concorsi appellandosi alla propria coscienza è troppo poco costringente, non contempla forme di enforcement né da parte di chi dovrebbe farle proprie, né di chi le trasgredisce.   L´adozione individuale, volontaria e pubblica di criteri minimi di decenza obbligherebbe a qualcosa che sin qui è mancata nell´università che conosciamo: la personale assunzione pubblica di responsabilità rispetto alle scelte che si fanno

Una soluzione ulteriore
Se la formazione di un altro ethos professionale resta lo scopo di lungo termine, a breve, per agevolare la transizione verso altre forme di reclutamento, mi sembra utile istituire dei comitati.   Oltre a quelli ricordati (comitato d’appoggio per i ricorsi al TAR, comitato di sostegno alla visibilità degli esclusi, comitato di individuazione delle sanzioni per comportamenti scorretti), suggerisco di istituire delle commissioni-ombra destinate a monitorare i concorsi espletati nell’area delle discipline sociologiche.   Non so se ci siano vincoli giuridici sulla loro costituzione, né sono in grado di stabilire se sia necessario un cambiamento legislativo.   Mi limito pertanto a descriverne il funzionamento.
Con commissione-ombra intendo un organismo che si forma contestualmente e sistematicamente all’elezione di ogni commissioni giudicatrici allo scopo di
-       articolare una valutazione indipendente dei candidati
-       valutare criticamente l’operato della commissione giudicatrice

Mentre la via giudiziaria interviene ex-post qui si agisce in parallelo.   Non solo, mentre i casi in cui è intervenuta la magistratura riguardano le procedure (come valutare ai fini di un concorso un libro uscito dopo i termini della domanda), ma non le decisioni della commissione che, condivisibili o meno, sono in un certo senso sovrane (ci saranno relazioni di minoranza, ma poi si vota e la maggioranza vince), qui si tratta di monitorare proprio tali decisioni.   La maggior parte dei concorsi espletati, osservava Bortolini, sono impeccabili dal punto di vista formale (privi di irregolarità amministrative) e tuttavia molti restano ingiusti da un un punto di vista scientifico.

a. Documenti di riferimento
Su cosa può concentrare la propria attenzione la commissione-ombra?   Anzitutto sui curricula dei candidati e sui giudizi dei commissari, ossia sui risultati dei lavori (non pubblici) delle commissioni.   Già questi documenti, come osservava giustamente Volontè, renderebbero possibile intercettare le più evidenti scorrettezze e forse – grazie alle pressioni del naming e shaming – contrastarle.  Ai commissari eletti nelle commissioni concorsuali si può anche richiedere di ricorrere più spesso di quanto normalmente accade allo strumento della relazione di minoranza, consegnando a un atto pubblico le ragioni del proprio dissenso.
Inoltre, prima e a prescindere del singolo concorso (lo ricordavano Franca Bimbi ed Emanuela Mora), si potrebbero pubblicare su un sito pubblico i CV degli studiosi (dottorandi, ricercatori, associati) che aspirano a un accesso o a una progressione di carriera.   Tale sito permetterebbe di avere una rapida visione d'insieme dei profili dei candidati soggetti a reclutamento, favorendo la capacità di comprendere ‘dove essi stanno’ in termini di innovazone scientifica/culturale, ma anche se c’entrano le componenti.

b. Monitoraggio
Il monitoraggio e la discussione dei singoli concorsi  da parte delle commissioni-ombra è una strategia che può rendere più complicato il compito di chi voglia sostituire alla valutazione del merito la logica dell’appartenenza.  Offrire una contro-valutazione dell’operato della commissione (nonché ricostruire la mappa dei concorsi combinati a tavolino: accordi di lealtà, favori da ricambiare, nuove amicizie da stabilire, parenti da sistemare) non avrà valore giuridico ma può diventare uno strumento di pressione culturale.  Pur non avendo statuto legale, le commissioni-ombra fungerebbero così da contropotere rispetto al potere delle componenti.   Il loro scopo non potrà essere quello di sottomettere i commissari ad un giudizio superiore, ma, come ricordava Volontè, dovrà essere quello di sottometterli fin dal principio alla consapevolezza che qualcuno esprimerà un giudizio sul loro operato, e che anche da questo giudizio dipenderà la loro credibilità futura.

c. Sanzioni
Al di là dei ricorsi e del TAR, che intervengono ex post per irregolarità amministrative e illeciti penali, si tratta di colpire la cultura diffusa che rende possibile l’occorrenza di risultati molto discutibili (la scelta di un vincitore finale meno bravo e meritevole di altri).   Occorre pertanto individuare le forme di protesta, nonché definire i comportamenti scorretti (i moltissimi ‘trucchi’ a cui si ricorre).   La distinzione fra ciò che è professionalmente “giusto” (o “buono”) e ciò che è professionalmente “sbagliato” (o “cattivo”) è tutt’altro che ovvia e pacifica (e senza un consenso intorno ad essa, com’è possibile premiare o punire persone e/o istituzioni?).   Ragionare sui parametri della valutazione ed essere in grado come comunità disciplinare di fornire dei criteri condivisi (ad esempio: non ci si addottora dove ci si è laureati; non si entra come ricercatori dove ci si è addottorati) mi sembra importante, ma intanto non è difficile inziare a identificare e classificare un’elenco di pratiche stigmatizzabili.   Fra queste  - non è una lista sistematica - ricordo: minacciare i candidati; isolare candidati che rifiutano di aderire alle componenti: valutare titoli non ammissibili (ad es. libri stampati sottocasa o pubblicazioni sui quaderni del dipartimento); screditare studiosi che scelgano di rivolgersi alla magistratura; far vincere parenti, amici, o quattro, cinque ‘allievi’ in uno stesso dipartimento; mettere a bando posti che perpetuano eternamente l’egemonie di certi temi o aree; valutare esclusivamente la didattica a scapito delle pubblicazioni (purtroppo con il nuovo sistema gli incentivi vanno ancor più nella direzione dell'impegno didattico e organizzativo, a detrimento della ricerca, ecc.

In conclusione, nuove regole non bastano a cambiare habitus e pratiche consolidate che neutralizzano, per non dire sviliscono chi merita.   Per avviare un’auspicabile fase di transizione verso una comunità scientifica più ‘sana’, l’istituzione di commissioni-ombra destinate a svolgere una funzione critica nei confronti dell’operato delle commissioni ufficiali, proponendo alternative e sanzionando comportamenti scorretti, mi sembra possa essere un primo, piccolo ma utile passo.  Resta la delicata questione del chi.  
Chi andrebbe a far parte delle commissioni-ombra?   Certamente non una oligarchia autonominatasi guardiana della qualità e intenta a moralizzare la comunità scientifica italiana (c’è qualcosa di farsesco nell’idea di un tribunale dei giusti che assegna pagelle ai colleghi, e non è questo l’intento del progetto “Per la sociologia”).   Ma nemmeno, come suggerisce universalisticamente Volontè, la comunità scientifica nel suo complesso (troppo vago) o ciascun singolo (come suggerisce Sciortino - troppo aleatorio).   A me sembra che la commissione-ombra possa configurarsi come una unità intermedia più focalizzata della comunità intera o della coscienza dei singoli, contrassegnata dalla necessaria autonomia ma anche dalla necessaria autorevolezza per farsi ascoltare, e rispettare.   Detto ciò, occorre definire come i suoi membri debbano essere eletti (certamento con trasparenza e pubblicità, forse anche con collaboratori internazionali, ma come?  Quanto spesso?  Con quali criteri di ricambio?).   Non nascondo che qui sta il problema: quanti di noi sarebbero davvero disposti a sacrificare tempo (libero) ed energia per far parte di una commissione-ombra?   E come essere sicuri che chi accetta di farne parte sia (suo malgrado) del tutto estraneo al contesto ed ai meccanismi prevalenti in italia?

Davide Sparti (Università di Siena)

Nessun commento:

Posta un commento

Il tuo commento verrà visualizzato dopo qualche ora dall'invio. Affinché il tuo post sia pubblicato è necessario inserire in calce il tuo nome e cognome per esteso e la tua afferenza accademica: es: Mario Rossi (Università di Roma). Se dopo 24 ore non vedi il tuo post, o se hai dubbi, scrivi direttamente una mail a perlasociologia@gmail.com