giovedì 27 ottobre 2011

Scusate per l'assenza

Cari Amici, mi spiace di non poter intervenire alla riunione di Bologna, che si preannuncia molto interessante: non sono in Italia in questo periodo. Peraltro penso che i pensionati (e pensionandi) hanno fatto il loro tempo ed è meglio che stiano a casa, se hanno cose da dire le scrivano, caveat emptor, ed è quel che mi accingo a fare solo per affermare due punti cui credo abbastanza fermamente, e cioè la percezione di una rinnovata domanda di sociologia e di scienze sociali in generale e l’assoluta insufficienza della attuale organizzazione accademica e professionale della sociologia italiana per fare fronte a queste nuove domande.

Il primo punto può sembrare paradossale, vista la confusione iconica, verbale e sonora in cui siamo immersi, ma sono invece convinto che, forse proprio per questo contesto, l’esigenza di conoscenze affidabili sulla società stia crescendo. Tra le tante tendenze, anche contraddittorie, che si delineano in questo periodo, vedo crescere una importante domanda di nuovo realismo che finalmente è stata recepita anche dai filosofi, per troppo tempo presi dalla passione decostruttivista, e dalle varie forme di letterarizzazione delle scienze sociali e umane. Senza negare i fenomeni di doppia ermeneutica e la duplice natura di faitish e féetish dell’oggetto dei nostri studi, Il principio di realtà è importante per la scienza sociale e ho l’impressione che molti sociologi, soprattutto italiani, abbiano con troppa liberalità e sventatezza abbandonato l’idea di una sociologia empiricamente fondata. Per timore di non riuscire a difendere uno statuto teorico e metodologico incerto e da varie parti messo in questione molti sociologi hanno abbracciato i vari Feyerabend, spesso masticati a metà, diffondendo uno scetticismo metodologico che a me pare più frutto di superficialità che di consapevolezza.

Sia ben chiaro che non sto sostenendo una sociologia quantitativa per sé come panacea, ma quella che mi inquieta è la povertà della metodologia, anche quando si avvale di tecnicismi statistici che, sia pure in parte minima, hanno cominciato a essere ritenuti conoscenza essenziale anche per un laureato in sociologia. Non siamo al livello di alcuni anni fa quando si è presentato a un concorso un tizio con un libro di centinaia di pagine per la quasi totalità dedicata a commentare puntualmente i coefficienti di variabili ciascuna delle quali contribuiva alla varianza totale per meno dello 0.01%. Passato poi per la solita invereconda combine tra le famose “componenti”, che secondo il loro vessilliferi. Né pretendo che tutti sappiano leggere l’AJS, anche se volendo criticare quel tipo di sociologia bisognerebbe prima capirla.

La debolezza che vedo e che non è diminuita nel tempo è nel disegno di ricerca, cioè nella capacità di formulare qualche idea chiara di ricerca, che abbia o una rilevanza per qualche porzione del discorso sociologico o quantomeno per un dibattito culturale generale, ma soprattutto che possa avere una qualche sorta di verifica in base ai dati raccolti. Non mi interessa che l’apparato tecnico della ricerca sia più o meno quantitativo, la carenza che rilevo sta nella diffusa irrilevanza dei dati osservativi, ai fini dell’impianto conoscitivo. I dati vanno da una parte, il discorso dall’altra e al più qualche dato viene tirato per i capelli in modo raramente convincente e conclusivo. Invece di opporsi alle banalità filosofico-cultureggianti che infestano il discorso sulla società, gran parte della sociologia generalista li rincorre e imita, trovandosi alla fine immersa in un mare di nutella sociologica, raramente illuminante.

Quando ho cominciato a occuparmi di sociologia una delle attrattive era nel netto distacco tra questa disciplina e la cultura che ci avevano insegnato a scuola. Poi anche quelli della mia generazione hanno capito che un taglio netto non si poteva fare, ma io rimango affezionato all’idea millsiana della sociologia come workmanship e mi sono convinto che, come è già avvenuto in passato nei diversi momenti d’oro della disciplina, anche ora ci troviamo in un momento in cui c’è una esigenza forte per una disciplina teoricamente avveduta (le grandi filosofie della storia lasciamole ai vari Bauman, Foucault, Augè e Virilio e compagnia cantante) e basata su solidi dati relativi a temi rilevanti per la disciplina e per la società. Non sto parlando in astratto, posso fare esempi e mi riprometto di farlo a breve.

Personalmente attribuisco gran parte dei guasti della sociologia italiana contemporanea al modo con il quale l’idea, in sé buona, dei settori scientifici e disciplinari è stata rimasticata dai sociologi e in particolare modo alla Sociologia generale. In sé il sistema degli SSD, è un esercizio interessante di classificazione delle scienze, ma purtroppo è contaminato da influenze opportunistiche perché su queste classificazioni si innesta il meccanismo dei concorsi universitari perché serve anche per identificare l’elettorato per la nomina dei componenti delle commissioni per le valutazioni comparative (così si chiamano in gergo burocratico i “concorsi”). Purtroppo come in altre faccende del nostro paese, una idea buona e apparentemente “democratica” e trasparente, caduta nelle mani dei manipolatori che si trovano in ogni angolo buio della nostra vita collettiva è diventata fonte di manipolazione e clientelismo. Così il settore disciplinare di Sociologia Generale, che avrebbe dovuto essere riservato all’élite degli studi e a coloro che si dedicano alla storia e alla sistemazione teorica e metodologica della disciplina, è diventato invece un settore generalistico in cui confluiscono le materie più disparate E’ ovvio che non ci può essere corso di laurea in sociologia senza un insegnamento di Sociologia generale, e quindi i ranghi di questo settore disciplinare si sono dilatati a dismisura. In più quando non si sapeva dove mettere una materia (sociologi della famiglia o sociologia della scienza) è stata messa nel calderone perché i signori delle tessere potevano così controllare un territorio più ampio e disporre di risorse più numerose. Il risultato è paradossale in una disciplina caratterizzata in modo precipuo dalla mancanza di solite fondamenta teoriche, carenza particolarmente forte nel nostro paese dove i contributi rilevanti a una teoria della società si possono contare sulle dita di una mano (e non faccio nomi per non distrarre il lettore e anche perché non è questo il luogo) la materia in cui questi contributi avrebbero dovuto trovare posto si è riempita di specialisti di una sorta di nutella sociologica che quando non è storia o meglio storiella della disciplina ed eterna rimasticatura dei classici, poi sempre più sempre quelli, si riduce a una sorta di superficiale critica sociale, anzi “Critica sociologica” per usare la formulazione brillante di Franco Ferrarotti, fondatore e per anni direttore della omonima rivista e intelligente praticante di questa arte. Così la Sociologia generale si riduce a sociologia generalista quando non semplicemente “generica”. Basta leggere la cosiddetta “declaratoria” del settore SPS/07 SOCIOLOGIA GENERALE

“Il settore contiene una serie di campi di competenza concernenti la propedeutica teorica, storica e metodologica della ricerca sociale, i confini epistemologici della sociologia, gli strumenti teorico-metodologici e le tecniche per l’analisi delle processualità micro e macro-sociologiche. In quest’ottica si articola in varie aree che vanno dalla sociologia in generale (per le prospettive teoriche fondamentali, il linguaggio delle scienze sociali, l’ordine e il mutamento e per le categorie e le problematiche relative al rapporto teoria-ricerca empirica), alla metodologia e tecnica della ricerca sociale, alla politica sociale connessa alle diverse tipologie di welfare, ai metodi e alle tecniche del servizio sociale ai sistemi sociali comparati, all’analisi dei gruppi, della salute della scienza, dello sviluppo, della sicurezza sociale, ai metodi della pianificazione, alla storia del pensiero sociologico.”

Questa non è Sociologia Generale (qualsiasi cosa voglia dire questa formulazione un po’ ottocentesca. Ricordo solo che la prima cattedra di sociologia assegnata in Italia a Camillo Pellizzi, reimmesso in ruoli dopo il rientro dell’epurazione, ma senza materia perché la “Mistica fascista” di cui era titolare non era più in auge, venne sistemato dopo un abile repechage dei burocrati di V.le Trastevere di una oscura materia chiamata “Sociologia Generale e Coloniale”. Per inciso, magari ci fosse stato qualcuno che durante il Fascismo avesse veramente studiato le culture delle società “colonizzate”), ma al più una Sociologia Generalistica che talvolta è semplicemente Generica. Una materia cioè, largamente tuttologica, in cui la specificità della disciplina si stempera in una generica culturologia, all’inseguimento delle filosofie correnti, spesso orecchiate e un occhio ai media invece che allo sviluppo di una teoria sociologica. Il risultato è un inseguimento di tutte le mode filosofiche del momento, invece che una sacrosanta battaglia sociologica. Quando la sociologia aiuta a capire quello che sta succedendo, vedi per esempio l’importanza acquisita da Luciano Gallino, Marco Revelli, Marzio Barbagli e a suo modo anche Luca Ricolfi (per citare alcuni nomi di un elenco non lunghissimo) ha una importanza notevole. Quando rincorre tutte le mode mediatiche imitando malamente letterati e filosofi e si abbandona al “demone dell’analogia” contribuisce al discredito. Ed ecco perché commentando il dibattito sulla crisi della sociologia il politologo Carlo Galli può giustamente parlare di tuttologia; ma non è la sola disciplina che ha questo difetto, quindi la spiegazione non è specifica e mi aspettavo che ci sarebbe stata una risposta ufficiale, perché c’era ampio campo di replica, non un boxino di Franco Ferrarotti. De Lillo mi aveva promesso un documento, ma non l’ho mai visto.

L’altro aspetto, per nulla slegato da questo, che rende la sociologia italiana scarsamente interessante è la sua organizzazione accademica per componenti. Con uno chutzpah degno di Golda Meier, Mario Morcellini, uno dei più importanti signori delle tessere, ha avuto il coraggio civile di sostenere all’Assemblea nazionale, accodandosi ad Antonio de Lillo (o viceversa, non mi ricordo più bene la sequenza, ma non importa entrambi hanno sostenuto la medesima cosa) che le componenti svolgono l’importante funzione di presentare a confronto diversi punti di vista “teorici”, diverse scuole di pensiero. Ci vuole davvero una grande improntitudine per scambiare delle organizzazioni paramafiose (clientelari? Particolaristiche? Familistiche? Dite come volete, non è il nome che conta, ma le pratiche), come peraltro ne esistono tantissime nella vita di questo paese, per “scuole di pensiero”. Lungi dal permettere o anche favorire il confronto intellettuale, le componenti lo bloccano; in genere le riunioni “scientifiche” si organizzano all’interno delle componenti, per talune in modo più rigido che per altre, ma è irrilevante, e si fa “carriera” prima nella componente e poi, sostenuti dalla componente, in un sistema concorsuale interamente e rigidamente lottizzato. Sappiamo tutti che le cose stanno così e che sono andate peggiorando nel tempo, purtroppo anche grazie all’ AIS che invece di fornire una arena di contrasto a queste suddivisioni le ha cementate, grazie anche alle filosofie individuali e collettive della leadership che ha governato l’AIS in questi anni emarginando chi la pensava in modo diverso.

Non voglio certo fare l’innocentino, agli inizi ho partecipato, e devo dire anche con un certo gusto perché c’è pur sempre un elemento ludico in queste controversie: mi illudevo che si trattasse di un passaggio obbligato e temporaneo e che la progressiva professionalizzazione della disciplina avrebbe eliminato queste feudalità. La mia esperienza internazionale mi portava a osservare che la disciplina sociologica era meglio sviluppata nei paesi dove esisteva anche un buon grado di associazionismo professionale. Non è stato così o quantomeno per l’Italia non ha funzionato, perché la nostra cultura accademica (ripeto non diversamente da quella i altri settori) è rapidamente preda del familismo amorale. Il merito non è del tutto escluso, in questo sistema, ma deve farsi largo nelle imbricazioni del sistema paternalistico-patriarcale delle clientele accademiche.

Quanto sopra non per fare una confessione, ma per dire che conosco bene il sistema, non parlo da esterno, anche se non sono al corrente dei dettagli relativi agli ultimi anni. Ma le ultime esperienze concorsuali in questo periodo, le ultime in assoluto della mia lunghissima carriera, mi hanno allontanato sia dall’Associazione che poi da ultimo, anche dall’accademia attiva, perché un conto è sostenere i propri allievi in un mondo in cui questo paternage è strutturale, un conto è trasformare questa pratica in un meccanismo senza uscita.

Per questo con Ascoli sono interamente d’accordo “ho la netta sensazione da tempo che occorra ‘far saltare il tavolo’ ed aprire la finestra per fare entrare aria nuova e ‘pulita’! Sono quindi convinto che Ri-Aprire una discussione ed un dibattito chiusi molti anni fa sia assolutamente salutare. Quindi un plauso a chi si è fatto carico dell’appuntamento.”

Guido Martinotti (Università di Milano-Bicocca)


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