Intanto io comincerei a fare, non
da laudator temporis acti (lungi da
me, sinceramente), ma come semplice constatazione fattuale una differenza
generazionale (una due generazioni di differenza, vedete voi). La generazione
mia e di Bagnasco - dal cui post prende spunto questo mio intervento - ha vissuto la sociologia come una scelta al tempo stesso
culturale ed esistenziale. Una scelta di rottura che comportava anche rischi e
svantaggi, ma che aveva il vantaggio di essere molto stimolante e quindi da un
lato selezionava individui più propensi al rischio e all’impegno della media, e
dall’altro imponeva a chi faceva questa scelta la necessità di guadagnarsi la
pagnotta invece di trovarla sulla tavola apparecchiata. Può sembrare marginale,
ma la scarsa disponibilità di testi, mentre i colleghi di altre materie avevano istituti con biblioteche ben fornite, era un handicap tutt’altro che
marginale, soprattutto per chi come me faceva una tesi in sociologia -- materia
supercomplementare di supernicchia in una facoltà di Giurisprudenza, fortunatamente insegnata da Renato Treves.
Non voglio escludere che vi fossero
anche gli opportunisti, i transfughi deragliati da altre materie soprattutto in
campo letterario (in un certo senso c’era dell’opportunismo anche da parte di
chi puntava a uno sviluppo futuro della materia per ragioni intellettuali.
Opportunismo visionario, certo) e il sottobosco di quelli che non sanno cosa
fare. C’era naturalmente anche questo, ma il mainstream era animato da spirito
missionario e di scoperta. Aggiungo che cinquant’anni fa era più facile, si era
più poveri, ma le prospettive di sviluppo in tutti i campi erano molto elevate
e il costo dell’errore di conseguenza minore.
Oggi le risorse sono maggiori, ma
le prospettive di sviluppo scarse e il costo dell’errore più elevato: non è
irrazionale starsene defilati. Nella introduzione a La folla solitaria, Riesman
fa ricorso a paragoni storici per giustificare la trasformazione del carattere
sociale americano da autodiretto a eterodiretto, ricordando che nell’antica
Atene il diritto di voto che era stato conquistato a fatica nel passaggio dalla
oligarchia alla democrazia era poi caduto in scarsa considerazione tanto che
per indurre i cittadini a votare era stato introdotto un contributo di un
obolo. Mutatis mutandis è il medesimo atteggiamento di
passività che le femministe rimproverano alle giovani donne di oggi.
In
conclusione, voglio dire che una parte della spiegazione risiede molto
semplicemente nelle mutate condizioni di contesto e di organizzazione
istituzionale della disciplina, che rendono meno sensibile la spinta verso un
impegno “pubblico”.
Al tempo stesso ho sovente notato che i sociologi, intesi come
comunità accademica, sono poco “istituzionalisti”, conoscono e frequentano
poco, e in molti casi spregiano, le cerimonialità accademiche. Giusto poco tempo
fa mi è capitato di sentire un sociologo piuttosto noto e considerato,
dichiarare ripetutamente in una occasione ufficiale importante di non essere un
“homo academicus”, e nella mia esperienza di prorettore a UNIMIB ho visto spesso
i colleghi della mia materia assenti o distratti in importanti occasioni
accademiche di ateneo. In una di queste ero riuscito, per pure ragioni di
conoscenza e stima reciproca, a ottenere la presenza di Giuliano Amato, allora
primo ministro, alla presentazione dei risultati di una importante ricerca di
una collega del dipartimento di sociologia. Gran parte dei colleghi sociologi,
compresi tutti i responsabili degli organi accademici della materia, non si era
degnata di scendere dal 4 al 1 piano dell’edificio, anche solo come atto di
presenza. Un comportamento che aveva fatto legittimamente inferocire il
Rettore, anche se poi non credo che il Capo del Governo avesse morettianamente notato
questa particolare assenza. In parte credo che si tratti di un residuato
sessantottesco, ma in parte si tratta di vera e propria cecità o maleducazione
istituzionale.
Quali
che ne siano le cause, che possiamo analizzare con distacco, come ha fatto
Arnaldo, le mie conclusioni valutative sono che si tratta di una pessima
inclinazione che credo nuoccia non poco alla sociologia come componente del mondo
accademico; non voglio necessariamente fare un confronto con altre tribù
accademiche che ho frequentato come i giuristi che a questi aspetti sono molto
attenti, né voglio fare il santificatore di quel genere di accademici che passa
la vita a intrigare nei corridoi piuttosto che scrivere: ne conosciamo anche di
preclari.
Dico solo che la competenza sociologica dovrebbe stimolare a una
maggiore presenza istituzionale, in tutte le organizzazioni complesse il merito
va perseguito, ma la collocazione nell’istituzione va conquistata. Non voglio
scadere nel cinismo spicciolo del vecchio accademico tedesco che diceva che “in
questo mondo se non dedichi un po’ di tempo a scavare la fossa sotto ai piedi
dei colleghi finisci per caderci dentro tu”, ma il senso dovrebbe essere
chiaro. Io penso che nell’università il compito dello studioso, oltre a quello
ovvio di studiare, fare ricerca, produrre idee e insegnarle, sia anche quello
di contribuire alla migliore organizzazione dell’istituzione.
Come sapete ho
combattuto le componenti al punto di rifiutarmi di frequentare la mia. Era un
comune impegno di tutti in SPS10, dove ci siamo sempre tutti rifiutati di
cedere alle intimazioni di Cesareo & Co. di “rientrare nella norma”. Non
voglio dire che in SPS10 siamo più bravi degli altri, dico che quel Cencelli lì
non la abbiamo applicato, avremo fatto altri errori, ma non quello e il clima
era molto più collaborativo che ostile. Ha probabilmente ragione Arnaldo
nell’imputare alla presenza fortemente organizzata di una componente, la SPE,
la scarsa voglia di partecipare degli altri, ma chi si riconosce nella
componente MITO, deve anche chiedersi come si sia arrivati a questa situazione.
Nell’AIS ho fatto il portavoce di MITO, prima con Guido Romagnoli e poi con
Antonio De Lillo, per un tempo considerevole, e ho praticato le componenti
ritenendo che fossero un elemento di ordine in un momento fondativo. Non mi
sono affatto tirato indietro allora, ma quando ho rinunciato, con una decisione
pubblicamente annunciata, il gruppo di MITO era più del 45% e propugnava criteri universalistici.
Cosa sia successo dopo non lo so, ma so che il MITO è diventato una sparuta
minoranza e sono prevalse nell’AIS logiche strettamente particolaristiche.
Qualcosa sarà pur successo e chi ci è stato potrà raccontarlo meglio di me, io
vedo solo i risultati. La mia opposizione alle componenti è nota, dichiarata, convinta e non è
stata certamente addolcita dalle risposte parziali e molto indirette alle mie
obiezioni. Al convegno di Milano, in cui mi era stato promesso prima un
documento e poi una risposta ufficiale alle mie critiche, ho solo sentito
Morcellini riaffermare le componenti come “ricchezza” dell’AIS. Balle!
Le
componenti sono un macigno al collo e rendono la sociologia italiana ancora più
italiota e provinciale di quello che era. La lettera di Colozzi è una buona
dichiarazione di intenzioni e spero che alle intenzioni facciano seguito anche
gli atti, ma molto dipenderà dal comportamento di tutti. Io non sono molto
d’accordo, in genere, con chi dice “non partecipo per non legittimare”. Lo si
può fare nei momenti associativi e di fatti all’AIS io non partecipo più, non
per punire nessuno, non ne avrei il peso, ma perché non mi piace stare in un
mondo così frammentato in caciccati. Ma sul piano istituzionale le cose sono
diverse, bisogna stare molto attenti alle questioni istituzionali e partecipare
alla vita delle istituzioni anche se si è in minoranza. Al sociologo che si
vanta di non essere “homo academicus” io suggerirei di cambiare mestiere.
g.m.
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