sabato 16 giugno 2012

Ancora sui sociologi riluttanti: il punto di vista di Guido Martinotti


Intanto io comincerei a fare, non da laudator temporis acti (lungi da me, sinceramente), ma come semplice constatazione fattuale una differenza generazionale (una due generazioni di differenza, vedete voi). La generazione mia e di Bagnasco - dal cui post prende spunto questo mio intervento - ha vissuto la sociologia come una scelta al tempo stesso culturale ed esistenziale. Una scelta di rottura che comportava anche rischi e svantaggi, ma che aveva il vantaggio di essere molto stimolante e quindi da un lato selezionava individui più propensi al rischio e all’impegno della media, e dall’altro imponeva a chi faceva questa scelta la necessità di guadagnarsi la pagnotta invece di trovarla sulla tavola apparecchiata. Può sembrare marginale, ma la scarsa disponibilità di testi, mentre i colleghi di altre materie avevano istituti con biblioteche ben fornite, era un handicap tutt’altro che marginale, soprattutto per chi come me faceva una tesi in sociologia -- materia supercomplementare di supernicchia in una facoltà di Giurisprudenza, fortunatamente insegnata da Renato Treves. 

Non voglio escludere che vi fossero anche gli opportunisti, i transfughi deragliati da altre materie soprattutto in campo letterario (in un certo senso c’era dell’opportunismo anche da parte di chi puntava a uno sviluppo futuro della materia per ragioni intellettuali. Opportunismo visionario, certo) e il sottobosco di quelli che non sanno cosa fare. C’era naturalmente anche questo, ma il mainstream era animato da spirito missionario e di scoperta. Aggiungo che cinquant’anni fa era più facile, si era più poveri, ma le prospettive di sviluppo in tutti i campi erano molto elevate e il costo dell’errore di conseguenza minore. 

Oggi le risorse sono maggiori, ma le prospettive di sviluppo scarse e il costo dell’errore più elevato: non è irrazionale starsene defilati. Nella introduzione a La folla solitaria, Riesman fa ricorso a paragoni storici per giustificare la trasformazione del carattere sociale americano da autodiretto a eterodiretto, ricordando che nell’antica Atene il diritto di voto che era stato conquistato a fatica nel passaggio dalla oligarchia alla democrazia era poi caduto in scarsa considerazione tanto che per indurre i cittadini a votare era stato introdotto un contributo di un obolo. Mutatis mutandis  è il medesimo atteggiamento di passività che le femministe rimproverano alle giovani donne di oggi. 

In conclusione, voglio dire che una parte della spiegazione risiede molto semplicemente nelle mutate condizioni di contesto e di organizzazione istituzionale della disciplina, che rendono meno sensibile la spinta verso un impegno “pubblico”. 

Al tempo stesso ho sovente notato che i sociologi, intesi come comunità accademica, sono poco “istituzionalisti”, conoscono e frequentano poco, e in molti casi spregiano, le cerimonialità accademiche. Giusto poco tempo fa mi è capitato di sentire un sociologo piuttosto noto e considerato, dichiarare ripetutamente in una occasione ufficiale importante di non essere un “homo academicus”, e nella mia esperienza di prorettore a UNIMIB ho visto spesso i colleghi della mia materia assenti o distratti in importanti occasioni accademiche di ateneo. In una di queste ero riuscito, per pure ragioni di conoscenza e stima reciproca, a ottenere la presenza di Giuliano Amato, allora primo ministro, alla presentazione dei risultati di una importante ricerca di una collega del dipartimento di sociologia. Gran parte dei colleghi sociologi, compresi tutti i responsabili degli organi accademici della materia, non si era degnata di scendere dal 4 al 1 piano dell’edificio, anche solo come atto di presenza. Un comportamento che aveva fatto legittimamente inferocire il Rettore, anche se poi non credo che il Capo del Governo avesse morettianamente notato questa particolare assenza. In parte credo che si tratti di un residuato sessantottesco, ma in parte si tratta di vera e propria cecità o maleducazione istituzionale.

Quali che ne siano le cause, che possiamo analizzare con distacco, come ha fatto Arnaldo, le mie conclusioni valutative sono che si tratta di una pessima inclinazione che credo nuoccia non poco alla sociologia come componente del mondo accademico; non voglio necessariamente fare un confronto con altre tribù accademiche che ho frequentato come i giuristi che a questi aspetti sono molto attenti, né voglio fare il santificatore di quel genere di accademici che passa la vita a intrigare nei corridoi piuttosto che scrivere: ne conosciamo anche di preclari. 

Dico solo che la competenza sociologica dovrebbe stimolare a una maggiore presenza istituzionale, in tutte le organizzazioni complesse il merito va perseguito, ma la collocazione nell’istituzione va conquistata. Non voglio scadere nel cinismo spicciolo del vecchio accademico tedesco che diceva che “in questo mondo se non dedichi un po’ di tempo a scavare la fossa sotto ai piedi dei colleghi finisci per caderci dentro tu”, ma il senso dovrebbe essere chiaro. Io penso che nell’università il compito dello studioso, oltre a quello ovvio di studiare, fare ricerca, produrre idee e insegnarle, sia anche quello di contribuire alla migliore organizzazione dell’istituzione. 

Come sapete ho combattuto le componenti al punto di rifiutarmi di frequentare la mia. Era un comune impegno di tutti in SPS10, dove ci siamo sempre tutti rifiutati di cedere alle intimazioni di Cesareo & Co. di “rientrare nella norma”. Non voglio dire che in SPS10 siamo più bravi degli altri, dico che quel Cencelli lì non la abbiamo applicato, avremo fatto altri errori, ma non quello e il clima era molto più collaborativo che ostile. Ha probabilmente ragione Arnaldo nell’imputare alla presenza fortemente organizzata di una componente, la SPE, la scarsa voglia di partecipare degli altri, ma chi si riconosce nella componente MITO, deve anche chiedersi come si sia arrivati a questa situazione. Nell’AIS ho fatto il portavoce di MITO, prima con Guido Romagnoli e poi con Antonio De Lillo, per un tempo considerevole, e ho praticato le componenti ritenendo che fossero un elemento di ordine in un momento fondativo. Non mi sono affatto tirato indietro allora, ma quando ho rinunciato, con una decisione pubblicamente annunciata, il gruppo di MITO era più del 45%  e propugnava criteri universalistici. 

Cosa sia successo dopo non lo so, ma so che il MITO è diventato una sparuta minoranza e sono prevalse nell’AIS logiche strettamente particolaristiche. Qualcosa sarà pur successo e chi ci è stato potrà raccontarlo meglio di me, io vedo solo i risultati. La mia opposizione alle componenti  è nota, dichiarata, convinta e non è stata certamente addolcita dalle risposte parziali e molto indirette alle mie obiezioni. Al convegno di Milano, in cui mi era stato promesso prima un documento e poi una risposta ufficiale alle mie critiche, ho solo sentito Morcellini riaffermare le componenti come “ricchezza” dell’AIS. Balle! 

Le componenti sono un macigno al collo e rendono la sociologia italiana ancora più italiota e provinciale di quello che era. La lettera di Colozzi è una buona dichiarazione di intenzioni e spero che alle intenzioni facciano seguito anche gli atti, ma molto dipenderà dal comportamento di tutti. Io non sono molto d’accordo, in genere, con chi dice “non partecipo per non legittimare”. Lo si può fare nei momenti associativi e di fatti all’AIS io non partecipo più, non per punire nessuno, non ne avrei il peso, ma perché non mi piace stare in un mondo così frammentato in caciccati. Ma sul piano istituzionale le cose sono diverse, bisogna stare molto attenti alle questioni istituzionali e partecipare alla vita delle istituzioni anche se si è in minoranza. Al sociologo che si vanta di non essere “homo academicus” io suggerirei di cambiare mestiere.

g.m.

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