domenica 17 giugno 2012

Sui sociologi riluttanti: le considerazioni di Francesco Ramella


Marco Santoro ha la capacità rara di coglierti mentre hai la “guardia abbassata”. Devi scrivere, sei indietro rispetto alle mille scadenze che hai, ti girano le scatole perché sei a casa a lavorare di domenica mattina…….e arriva un suo stimolo importante, che ti distrae, che ti “interroga”. Che fai, lo affronti? Lo ignori? Forse è meglio togliersi il dente subito e poi tornare a lavorare.

Perché c’è un deficit di partecipazione istituzionale in alcuni settori della sociologia italiana? Parte della risposta è venuta già dalle riflessioni di Marco e da alcune cose che hanno scritto Bagnasco e Martinotti. Aggiungo un paio di considerazioni.

La prima è che esiste un aspetto della nostra cultura accademica che rinforza l’assenza di incentivi specifici alla partecipazione istituzionale. Una sorta di “sindrome del sospetto” nei confronti di chi ricopre cariche istituzionali (le più svariate), che ricorda non poco alcuni tratti del familismo amorale. Questa cultura del sospetto ci induce a pensare che chi assume incarichi nella governance istituzionale (di direzione dei corsi, di coordinamento dei dipartimenti, di rappresentanza associativa ecc.), lo faccia essenzialmente per «massimizzare i vantaggi materiali e immediati» propri e della propria famiglia accademica, supponendo «che tutti gli altri si comportino allo stesso modo». Come sappiamo si tratta di assunzioni non destituite di fondamento, vista la storia passata. Il lato insidioso, però, è che questa cultura (e la sua riproduzione) tende a generare profezie che si autorealizzano e ad innescare circoli viziosi che – al contrario – vanno interrotti.

Aggiungo che questa sindrome culturale crea un “alibi” efficace per il disimpegno personale e tende a rinforzare una deriva strutturale che oggi spinge in maniera forte verso il free riding, generando una sotto-dotazione di beni collettivi nella nostra comunità professionale.  In presenza di risorse scarse e decrescenti, che scatenano conflitti molto aspri, l’assunzione di incarichi collettivi (gestionali, di valutazione ecc.) risulta infatti molto poco attraente. Assumere cariche (a qualsiasi livello) sottrae tempo alla produzione scientifica e non produce reputazione accademica.  Anzi - per l’azione di quella cultura del sospetto di cui dicevo prima –  può generare disutilità e danneggiamenti reputazionali.

Questa sindrome agisce solo tra i sociologi? Non credo. Forse (ma scrivo forse) è più forte in una comunità divisa come la nostra. Forse (ma scrivo forse) è più forte in una componente che – in passato - ha vissuto delusioni collettive nel tentativo di fare passare una logica più trasparente e universalistica nella gestione delle carriere accademiche. Ritengo però che questa “tendenza al disimpegno” si insinui più facilmente proprio tra coloro che tengono maggiormente  alla propria produzione (e reputazione) scientifica. Ciò, non di rado, produce una selezione avversa nelle candidature per gli incarichi collettivi. Per fortuna ci sono molte eccezioni importanti a questa “deriva”. Come sappiamo nel campo delle scienze sociali le linee di tendenza, le regole probabilistiche, lasciano ampio spazio anche al “disordine”.

Vengo perciò alla seconda considerazione. Dobbiamo prendere tutti maggiore consapevolezza che in questa fase il nostro “interesse bene inteso”, richiede un cambio di passo rispetto al passato. Che essere rappresentati in maniera inadeguata in sedi istituzionali importanti (ognuno riempia qui con gli esempi che crede) porta discredito e danneggia l’intera categoria professionale. Il nostro legittimo interesse ad una buona produzione scientifica passa anche attraverso “perdite di tempo”  connesse ai dibattiti pubblici, agli incarichi collettivi ecc.

Chi era all’incontro di Bologna e ha seguito le vicende successive sa come la penso. Non è il momento dell’Aventino e del disimpegno istituzionale. Siamo in una fase importante di riscrittura delle “regole del gioco”, su diversi fronti, e questo avrà un impatto profondo sulla qualità della nostra comunità scientifica. Per questo, il livello “normativo e regolativo” è importante e dobbiamo essere presenti e fare sentire le nostre voci (ascoltando anche le “buone ragioni” altrui). Così come è importante affermare (e accreditare) nuove norme culturali e standard di comportamento che erodano – nei fatti – la logica che tende alla riproduzione inerziale delle componenti.

f.r.

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