Marco
Santoro ha la capacità rara di coglierti mentre hai la “guardia abbassata”.
Devi scrivere, sei indietro rispetto alle mille scadenze che hai, ti girano le
scatole perché sei a casa a lavorare di domenica mattina…….e arriva un suo
stimolo importante, che ti distrae, che ti “interroga”. Che fai, lo affronti?
Lo ignori? Forse è meglio togliersi il dente subito e poi tornare a lavorare.
Perché
c’è un deficit di partecipazione istituzionale in alcuni settori della
sociologia italiana? Parte della risposta è venuta già dalle riflessioni di
Marco e da alcune cose che hanno scritto Bagnasco e Martinotti. Aggiungo un
paio di considerazioni.
La
prima è che esiste un aspetto della nostra cultura accademica che rinforza
l’assenza di incentivi specifici alla partecipazione istituzionale. Una sorta
di “sindrome del sospetto” nei confronti di chi ricopre cariche istituzionali
(le più svariate), che ricorda non poco alcuni tratti del familismo amorale. Questa
cultura del sospetto ci induce
a pensare che chi assume incarichi nella governance istituzionale (di direzione
dei corsi, di coordinamento dei dipartimenti, di rappresentanza associativa
ecc.), lo faccia essenzialmente per «massimizzare i vantaggi materiali e immediati» propri e della propria
famiglia accademica, supponendo «che tutti gli altri si comportino allo stesso
modo». Come sappiamo si tratta di assunzioni non destituite di fondamento,
vista la storia passata. Il lato insidioso, però, è che questa cultura (e la
sua riproduzione) tende a generare profezie che si autorealizzano e ad innescare
circoli viziosi che – al contrario – vanno interrotti.
Aggiungo che questa sindrome
culturale crea un “alibi” efficace per il disimpegno personale e tende a rinforzare
una deriva strutturale che oggi spinge in maniera forte verso il free riding, generando
una sotto-dotazione di beni collettivi nella nostra comunità professionale. In presenza di risorse scarse e
decrescenti, che scatenano conflitti molto aspri, l’assunzione di incarichi
collettivi (gestionali, di valutazione ecc.) risulta infatti molto poco attraente.
Assumere cariche (a qualsiasi livello) sottrae tempo alla produzione
scientifica e non produce reputazione accademica. Anzi - per l’azione di quella cultura del sospetto di cui
dicevo prima – può generare disutilità
e danneggiamenti reputazionali.
Questa sindrome agisce solo
tra i sociologi? Non credo. Forse (ma scrivo forse) è più forte in una comunità
divisa come la nostra. Forse (ma scrivo forse) è più forte in una componente
che – in passato - ha vissuto delusioni collettive nel tentativo di fare
passare una logica più trasparente e universalistica nella gestione delle
carriere accademiche. Ritengo però che questa “tendenza al disimpegno” si
insinui più facilmente proprio tra coloro che tengono maggiormente alla propria produzione (e reputazione)
scientifica. Ciò, non di rado, produce una selezione avversa nelle candidature
per gli incarichi collettivi. Per fortuna ci sono molte eccezioni importanti a
questa “deriva”. Come sappiamo nel campo delle scienze sociali le linee di
tendenza, le regole probabilistiche, lasciano ampio spazio anche al
“disordine”.
Vengo perciò alla seconda
considerazione. Dobbiamo prendere tutti maggiore consapevolezza che in questa
fase il nostro “interesse bene inteso”, richiede un cambio di passo rispetto al
passato. Che essere rappresentati in maniera inadeguata in sedi istituzionali
importanti (ognuno riempia qui con gli esempi che crede) porta discredito e
danneggia l’intera categoria professionale. Il nostro legittimo interesse ad
una buona produzione scientifica passa anche attraverso “perdite di tempo” connesse ai dibattiti pubblici, agli
incarichi collettivi ecc.
Chi era all’incontro di
Bologna e ha seguito le vicende successive sa come la penso. Non è il momento
dell’Aventino e del disimpegno istituzionale. Siamo in una fase importante di
riscrittura delle “regole del gioco”, su diversi fronti, e questo avrà un
impatto profondo sulla qualità della nostra comunità scientifica. Per questo, il
livello “normativo e regolativo” è importante e dobbiamo essere presenti e fare
sentire le nostre voci (ascoltando anche le “buone ragioni” altrui). Così come è
importante affermare (e accreditare) nuove norme culturali e standard di
comportamento che erodano – nei fatti – la logica che tende alla
riproduzione inerziale delle componenti.
f.r.
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