lunedì 18 giugno 2012

I sociologi riluttanti: il punto di vista di Chiara Saraceno

Ha ragione Santoro a chiedersi perché mai i sociologi italiani che godono di maggiore prestigio scientifico, e per lo più non fanno parte della “componente” SPe, non abbiano ritenuto opportuno di candidarsi a far parte del GEV14. 

In parte la risposta è fornita da Martinotti. Troppi sociologi italiani, specie della mia generazione (ma siamo ormai quasi tutti in pensione), hanno un atteggiamento tra snobistico e indifferente per le dinamiche e i processi istituzionali. E’ un atteggiamento che ho sempre considerato irresponsabile, verso la disciplina e verso le più giovani generazioni. E’ ben diverso da quello tenuto dai colleghi stranieri cui spesso ci riferiamo quando si discute di definizioni di standard e di creazione di una comunità scientifica. Gli amici e colleghi stranieri che sono responsabili di riviste internazionali mi dicono che riscontrano lo stesso atteggiamento di de-responsabilizzazione, tra i colleghi italiani, quando si tratta di accettare di fare da referee per un articolo. Con il risultato di una doppia penalizzazione per la produzione scientifica nostrana quando vuole stare sul mercato internazionale: non solo si deve scrivere in una lingua non propria, con stili espositivi e argomentativi spesso diversi e con terminologie non sempre del tutto corrispondenti ai fenomeni che si analizzano. Si deve anche stare alle scelte teoriche, metodologiche e di rilevanza tematica definite da altre comunità scientifiche spesso di fatto molto nazionali, anche se l’uso della lingua inglese le rende automaticamente “internazionali”. 

L’assenza di una comunità scientifica, certamente non surrogata dall’AIS che anzi, nelle sue logiche “componentistiche”, ha piuttosto contribuito al suo aborto e alla auto-ghettizzazione delle “componenti”, è insieme effetto e causa di questo atteggiamento de-responsabilizzante. Anche per questo la comunità dei sociologi italiani in quanto tale gode di pochissima stima all’estero e nelle associazioni internazionali. I molti rifiuti avuti da parte di stranieri possono avere tra le proprie cause anche questa scarsa legittimazione della sociologia italiana in quanto tale a livello internazionale.






Ma la storia non è tutta qui. Forse c’è stato anche un difetto di pubblicizzazione. Pubblicare un bando non basta se nessuno lo sa. Una persona che ha fatto domanda ne ha scoperto per caso l’esistenza andando casualmente sul sito del Ministero, un’operazione che non si fa normalmente tutti i giorni o tutte le settimane e forse neppure tutti i mesi. Certamente io non ho ricevuto nessuna informazione in merito, forse perché sono in pensione (ma ho ricevuto la richiesta, accettata, di fare da referee). Ma non mi risulta che chi invece è ancora in servizio la abbia ricevuta, dal ministero o dalla propria università, o almeno dall’AIS. Chi ha fatto domanda in massa, quindi, probabilmente ha ricevuto l’informazione e la sollecitazione tempestiva da parte di qualcuno che, più che preoccuparsi della disciplina in quanto tale, si è preoccupato/a della propria parte. Ciò ha a sua volta messo in moto il processo di sfiducia e delegittimazione che ha indotto, a torto a mio parere, alcuni di noi a non accettare di fare da referee. 

Con la stessa onestà intellettuale che ha mostrato nella sua risposta a Santoro, Colozzi dovrebbe prendere atto di questo. Il risultato non esaltante non è solo l’esito di una auto-esclusione. E’ anche l’esito di un processo politico e di gruppo che ha portato prima ad individuare la referente per le scienze sociali nell’ANVUR certamente non sulla base di un qualche criterio di eccellenza scientifica, poi a pubblicizzare in modo molto selettivo l’esistenza del bando. Se in altre discipline, e all’interno dello stesso GEV14 per scienza della politica, le cose sono andate diversamente è perché esistono comunità scientifiche meno frammentate e dove la responsabilità comune verso la disciplina è più condivisa, indipendentemente dalle divisioni interne.







Chiara Saraceno 

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